Commento alla Parola nella XIV Domenica del Tempo Ordinario /B – 7 luglio 2024

Il tema del giorno

Il profeta è sempre un «segno di contraddizione». Il successo visibile e il risultato non appartengono al carisma profetico, anzi sembrerebbe quasi che ne siano costitutivi la persecuzione e il rigetto.  La ragione è semplice: il profeta è visto come una sfida e una minaccia alle sicurezze su cui poggia il conformismo religioso e politico, e per questo viene emarginato, e perfino imprigionato e ucciso. Il profeta non offre illusioni; anzi, contesta le aspettative degli apparati e del popolo; non per spirito di contraddizione, ma per fedeltà a Dio e, paradossalmente, per amore degli uomini. Le letture di questa domenica ci introducono in questa scomoda dimensione della fede. Discorso faticoso e fastidioso, ma essenziale alla comprensione del ministero degli inviati di Dio, dello stesso Gesù e di tutti noi, se siamo coerenti con il nostro carisma cristiano e battesimale. 

Prima lettura: Ez 2,2-5

La missione di Ezechiele si colloca in uno dei periodi più drammatici della storia d’Israele: è il tempo dell’esilio, lo stesso in cui operò Geremia. Tuttavia, a differenza di costui che svolse il suo ministero tra i Giudei rimasti in patria, Ezechiele operò tra gli esuli. Deportato con altri suoi compatrioti, dopo la prima conquista di Gerusalemme da parte di Nabukadnezzar (siamo nel 597 a. C.), in un villaggio-profughi nella pianura tra il Tigri e l’Eufrate, riceve la vocazione profetica di cui ci parla la prima lettura.

L’appellativo ben-adam / figlio dell’uomo con cui la voce si rivolge a Ezechiele, non ha qui – come in altri casi – un carattere onorifico, ma ostenta piuttosto la fragilità del profeta. L’espressione, infatti, richiama il contesto immediatamente precedente nel quale, davanti alla gloria del Signore che irrompe nella sua vita, Ezechiele si prostra con la faccia a terra, perché si sente fragile. L’uomo è argilla, ed è questa la percezione di Ezechiele, umile figlio della terra. Davanti a una missione così importante l’essere umano sente anzitutto un peso che lo sovrasta, perché la missione supera le sue forze ed egli è rivestito unicamente dell’armatura fragile della Parola. Eppure Dio non fa sconti: io ti mando a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di meQuelli a cui ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito… È interessante la traduzione letterale del testo, che suona: sono figli dalla faccia tosta e dal cuore indurito. Il volto e il cuore sono simboli della totalità della persona, perché la rappresentano all’esterno e all’interno. Il volto rivela l’identità personale in rapporto con altri, comunicando loro sensazioni, impressioni, moti dell’anima… Con il cuore, invece siamo nella sfera intellettuale, volitiva, decisiva: con il cuore si stringono legami e si sopprimono, si fanno scelte e si rinnegano… Il popolo di Dio a cui il profeta viene inviato possiede, dunque, un volto e un cuore di pietra: insensibili ai richiami di Dio. E nonostante ciò, Dio continua a mandare i suoi profeti ed Ezechiele è il segno di un Amore che non lascia l’uomo nella sua ribellione, perché, lontano da Dio, l’essere umano va in rovina, nonostante le apparenze, ma se ritorna a Dio, se imbocca di nuovo la strada assegnatagli, allora ritorna la giustizia e fiorisce la pace. Ezechiele deve annunciare questo messaggio: deve parlare, anche se la casa ribelle di Israele non gli presterà ascolto. È questo il duro cammino dei profeti e, in fondo, la loro tragedia. Il profeta non può tacere, perché la parola rivela la Presenza di Dio e Dio non è indifferente a un popolo che decade e rischia di perdersi. Il profeta è legato al suo popolo con lo stesso amore bruciante con cui lo è Dio. Se Dio non fugge dai suoi, neanche il profeta lo può: deve rimanere legato a Dio e alla sua parola, costi quello che costi, perché il cammino di Dio si apre anche attraverso l’anima lacerata dei suoi profeti. Questo significa molto tormento e molto dolore, ma significa anche che Dio rimane con i suoi profeti, cammina con loro, soprattutto quando la strada si fa dura. 

Il Vangelo: Mc 6,1-6

L’episodio di Gesù a Nazareth va letto in questa linea appena tracciata. Per comprenderne la portata è necessario leggerlo nel suo contesto letterario. Siamo alla fine della seconda tappa del Vangelo, che era iniziata con un sommario sul successo che Gesù riscuoteva tra le folle accorse dalla Galilea, dalla Giudea e perfino da terre più lontane quali l’Idumea e i territori di Tiro e Sidone (Mc 3,7-8). È interessante notare che anche la prima tappa era iniziata nel segno del successo di Gesù, ma si era conclusa con un inaspettato quanto strano presagio: i farisei, insieme agli erodiani, si erano messi d’accordo per toglierlo di mezzo (3,6).  Sin dall’inizio, dunque, il profeta di Nazareth trova resistenza e opposizione da parte di alcuni gruppi di potere, mentre riscuote successo presso la gente semplice e soprattutto presso gli emarginati, i sofferenti afflitti e i peccatori.

Il rifiuto dei Nazaretani è ancora più inspiegabile, perché dopo la decisione degli erodiani e dei farisei, Gesù aveva suscitato speranze di liberazione tra il popolo: nei cuori era germogliata la fiducia e tra i suoi discepoli sempre più la convinzione di trovarsi non solo davanti a un uomo straordinario, ma davanti a un mistero. Tant’è vero che, dopo una traversata burrascosa del mare di Tiberiade, si erano chiesti: chi è costui che anche il vento e il mare gli obbediscono? (4,41). E tuttavia, nonostante il suo essere per gli altri e nonostante il suo procedere per le strade della Galilea facendo del bene, la gente di Nazareth si scandalizza di lui e si chiede scettica: da dove gli vengono queste cose?… Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Iose, di Giuda e di Simone? Marco per due volte, in pochi versetti, mette in evidenza che il profeta Gesù è “nella sua patria”. Non si tratta dunque del rifiuto dei nemici e neppure di quello di gente estranea: sono proprio i suoi, quelli del suo paese a rigettarlo! Essi lo conoscono e non vogliono lasciarsi mettere in discussione dal suo messaggio. I Nazaretani sono rappresentanti di tutti coloro che si arrogano il diritto di “sapere”, riducendo l’altro/a a quanto si sa e si percepisce. Rappresentano la presunzione del sapere.

I profeti vengono rifiutati nella propria patria, dice Gesù. Quasi a sottolineare che il pericolo s’annida proprio là dove non ci si aspetterebbe di trovarlo: tra i membri della propria famiglia, tra amici, tra gli uomini di chiesa, ecc. Chi è in grado di cogliere la profezia? Chi è in grado di vedere il germoglio dello Spirito che cresce nei labirinti della storia? Lo scandalo evangelico è proprio qui: gente dell’Idumea, di Tiro e di Sidone – e cioè gente lontana – sa leggere i segni di Dio nel mondo meglio di coloro che appartengono al popolo di Dio, alla casta prediletta. I profeti vengono rifiutati sulla base del calcolo politico e religioso, dei codici sacri che serrano i tutori dell’ordine nel recinto delle proprie convinzioni. Le strutture razionali – come quelle istituzionali – sono necessarie, ma corrono sempre il pericolo di leggere la storia a partire da convenzioni prestabilite, dalla sicurezza dei sacri recinti… Si rischia così di trascurare i segni dei tempi che nascono e crescono al di fuori dei sistemi culturali, politici e religiosi che ci circondano. La Bibbia insegna che Dio suscita profeti e figli di Abramo anche dalle pietre (Mt 3,9). Quasi a dire che Dio non è quel che noi pensiamo.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano