Commento alla Parola nella XV Domenica del Tempo Ordinario /B – 7 luglio 2024

Il tema del giorno

Le letture odierne permettono di proseguire il discorso iniziato domenica scorsa, quando – parlando della missione di Ezechiele e di Gesù – ci soffermavamo sulla drammaticità del compito profetico.  Le letture odierne ci riportano al momento cruciale di questo destino, all’incipit da cui tutto ha origine: la vocazione. Un profeta, infatti, deve tutto a quel momento iniziale in cui Dio si introduce nella sua vita e da quel giorno tutto cambia. La chiamata diventa il punto di svolta dell’esistenza e la stella da seguire. Il conflitto di Amos con il potere istituzionale e l’invio dei Dodici da parte di Gesù sono il frutto di una Parola iniziale, da cui tutto dipende.

Prima lettura: Am 7,12-15

La prima lettura ci riporta lo scontro drammatico tra il sacerdote Amasia e il profeta Amos. Amos è il più antico tra i profeti scrittori; quelli di cui si conservano parole e gesta raccolte in un libro. Profetizzò nel Regno del Nord al tempo di Geroboamo II (787-747 a.C.), un periodo di relativa calma che favorì, sul piano economico, gli scambi commerciali con l’estero, dando una certa prosperità al paese e un senso di sicurezza. L’archeologia ha dimostrato che la popolazione raggiunse proprio in quel secolo il suo maggior benessere. Ancora oggi i resti della capitale del Nord, Samaria, testimoniano poderose costruzioni e una strategica posizione militare e commerciale. Come solitamente avviene in tali circostanze, alla ricchezza di alcuni faceva riscontro l’estrema povertà di altri, con una situazione che risentiva di gravi squilibri sociali. Sul piano religioso si faceva sfoggio di intensa pietà, corredata da splendide cerimonie, ma dietro la facciata si nascondeva un gran vuoto.

La denuncia di Amos è radicale, senza ipocriti “distinguo”. Il suo messaggio è essenzialmente una denuncia appassionata, un «no» a tutto campo e anzitutto alle strutture religiose, politiche e sociali di una società corrotta, che calpesta il diritto dei giusti e schiaccia i miseri. Un «no» alla falsa sicurezza di un popolo che legittima il proprio tornaconto, fondandolo sull’elezione divina (cfr. 3,2a; 9,7). Un «no» alla teologia ufficiale che sembra avallare la comoda interpretazione dell’elezione intesa come privilegio. E un «no» anche al culto ufficiale, che confondeva la splendida facciata con il vuoto di contenuti.

In questa situazione, lo scontro con l’autorità ufficiale era inevitabile e, infatti, la prima lettura ci riporta il momento più drammatico: quello della cacciata di Amos da parte del sacerdote Amasia. È qui che Amos presenta se stesso e la sua chiamata.  Non era originariamente un profeta né apparteneva all’associazione ufficiale dei profeti di corte. Era un mandriano e incideva i sicomori, per procurare foraggio agli animali. In questa situazione fu afferrato da Jhwh. Il verbo ebraico laqah / prendere, afferrare che viene utilizzato mostra in maniera mirabile come un profeta non sia padrone di se stesso. La sua vita è stata afferrata da Qualcuno a cui non si può resistere. Non si è profeti per professione, ma per vocazione. Amos lo afferma esplicitamente davanti all’ufficialità sacerdotale. La chiamata di Dio segna una svolta nella vita della persona: ci si può sentire come Isaia, perduti e indegni, uomini dalle labbra impure che abitano in mezzo a un popolo dalle labbra impure (Is 6,5), oppure, come Geremia, dilaniati tra le esigenze di Dio e i propri personali tormenti. Il risultato è sempre lo stesso: a Dio non si può sfuggire. A proposito, Amos ha un’eloquente e ardita metafora: il leone ha ruggito, chi non tremerà? Il Signore Dio ha parlato, chi non profeterà? (Am 3,8). Quasi a dire che il profeta non può fare a meno di parlare quando Dio lo vuole. Il tremore davanti a un animale forte e selvaggio è una reazione istintiva e immediata; così è l’assenso del profeta di fronte alla richiesta di Jhwh: da quel momento ci si sente indissolubilmente legati a Dio, non si può più sfuggirgli. La bella parabola di Giona che fugge lontano dai malvagi di Ninive ne è una testimonianza significativa. Al profeta non è permesso scappare, per intraprendere i propri saggi cammini in compagnia degli uomini giusti. Non c’è nulla da fare, Dio è come un fuoco inestinguibile a cui nulla resiste (Ger 20,9).

Il Vangelo: Mc 6,7-13

A prima vista l’invio dei Dodici in Marco, con i risultati poi raggiunti, ha un esito totalmente diverso da quello di Amos, ma nelle istruzioni di Gesù ai suoi si avverte la stessa radicalità e la stessa intensità che si trova nella prima lettura. Del resto, il racconto dell’invio è collocato subito dopo il fallimento di Gesù a Nazareth: segno senz’altro di una libertà suprema del Maestro di fronte ai successi e agli insuccessi, ma anche presagio dell’esito finale a cui andranno incontro gli inviati, perché un discepolo non è da più del suo maestro.

Secondo lo stile dei profeti, i Dodici sono inviati senza alcun appoggio umano, corazzati solo dell’autorevolezza di Colui che li manda: ordinò loro che non portassero niente per strada… né pane, né bisaccia, né denaro nella cintura. Il loro cammino, senza appoggi e senza favori, è la testimonianza di un impegno totale nella causa alla quale sono chiamati. Il coinvolgimento con Cristo non può esaurirsi nel bel gesto o, peggio ancora, nell’estetismo evasivo di una religiosità per il tempo libero. La causa del Regno esige il primato assoluto.

Sono permessi solo il bastone e i sandali, l’equipaggiamento dei pellegrini. In effetti, non è proprio questa la condizione del profeta e del messaggero cristiano? Come il pellegrino, il cristiano inviato al mondo è chiamato ad amare la terra che lo porta, ma senza poter disporre di essa, senza impossessarsene, sfruttandola. È chiamato a sostare ove trovi accoglienza, senza dimenticare la mèta. Non può sottrarsi alle sfide, né ritirarsi in un luogo tranquillo, chiudendosi al sicuro nei sacri atri. Il suo posto è là dove lo pone la Parola: la piazza, la porta della città, i crocicchi delle strade… La mèta non è la propria sicurezza personale, né la propria riuscita, ma la pienezza dell’uomo e degli uomini, a cui Dio lo ha mandato. È veramente singolare che la riuscita sia diventata per i cristiani lo scopo da raggiungere. Il Vangelo non dice questo e il destino dei profeti lo testimonia. La casa dell’inviato è quella dell’ospite, che si apre, e quella dell’avversario o dell’indifferente, che si chiude. Ecco: il rifiuto! L’impegno di trasmettere la Parola lo fa stare a diretto contatto con le macchinazioni dei potenti e l’ingordigia dei ricchi, la solitudine dei poveri e l’insicurezza dei deboli. Con tutti è chiamato ad essere l’uomo di Dio, colui che annuncia – senza tentennare né mercanteggiare – misericordia e giudizio. Anche il giudizio, che non è però mai quello proprio, ma quello di Dio: se non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere dai vostri piedi!

Mi tornano alla mente alcuni versi che José Maria Valverde ha scritto sui poeti, ma che si appropriano perfettamente anche alla situazione dei profeti della Parola: “Ecco non abbiamo nulla, neppure la nostra stessa vita; noi, messaggeri di qualcosa che non intendiamo. Il nostro corpo lo arde una fiamma celeste; se guardiamo è solo perché le cose diventino voce. Non possiamo cogliere neppure il fiore di un argine perché sia nostro, soltanto nostro, né stenderci tranquilli in mezzo alle cose, senza pensare, a goder solo della loro presenza… Tu non ci dai il mondo affinché lo godiamo: ce lo consegni affinché lo rendiamo parola”. Versi impegnativi, come la vita stessa degli inviati di Dio.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano