Il tema del giorno
Le letture odierne ci mettono ancora una volta a confronto con un tema scottante e terribilmente serio, che ritorna sempre di nuovo nelle pagine della Scrittura, con insistenza quasi esasperante: si tratta della salvezza o della rovina di un popolo e della responsabilità che ne hanno coloro che sono chiamati al ruolo di guida. Il problema del potere nel popolo di Dio ha accompagnato Israele sin dalle sue origini. Sin dalla nascita della monarchia, la storia d’Israele appare segnata dalla controversia sulla dignità di una guida umana che fosse all’altezza di Dio, la vera guida del suo popolo. Con l’andare del tempo, però, si arrivò a capire che il problema non concerneva solo chi aveva il ruolo di guida, ma i valori stessi che presiedono alla convivenza di un popolo che si definisce “popolo di Dio” e, in ultima analisi, il progetto che presiede alla stessa convivenza umana. Andiamo più a fondo.
Prima lettura: Ger 23,1-6
Il motivo del popolo di Dio abbandonato a se stesso per l’indegnità e la rapacità di coloro che dovrebbero averne cura ricorre nelle pagine bibliche fin dall’inizio. Già i profeti più antichi – tra cui Amos ed Osea – avevano rilevato la gravità della situazione e avevano denunciato lo stato di prostrazione di un popolo, dove si giura, si mente, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue (Os 4,2). I capi, non solo si mostrano ciechi di fronte a situazioni insostenibili, ma ne sono spesso responsabili, con la loro ignavia, la loro corresponsabilità e una brama smodata di potere. Da questo stato di cose nascono le invettive profetiche, che Geremia riprende con forza in svariati momenti della sua attività.
All’esterno, Israele viene umiliato da potenze straniere; al suo interno sperimenta corruzione e depravazione. Fin dall’inizio della sua attività profetica, la denuncia di Geremia è sferzante. Nel capitolo secondo del suo libro, ad esempio, dopo aver parlato dei padri che avevano abbandonato Dio per seguire gli idoli, il profeta accusa tutta la classe dirigente del suo tempo: neppure i sacerdoti si domandano: dov’è il Signore? I detentori della legge non mi hanno conosciuto, i pastori mi si sono ribellati, i profeti hanno predetto nel nome di Baal e hanno seguito esseri vani (Ger 2,8).
Il profeta autentico vede e denuncia la radice del male che accomuna il popolo e i suoi pastori: l’abbandono di YHWH e l’adesione agli idoli. L’idolatria – che porta ad adorare e servire chi non è Dio – costituisce il grande peccato dei responsabili di Israele, un peccato che porta il popolo tutto alla rovina: i pastori sono diventati insensati, non hanno ricercato più il Signore; per questo non hanno avuto successo ed è disperso tutto il loro gregge (Ger 10,21). Nei capi, l’apostasia si traduce in ricerca di interessi personali e di appoggi, che offrono sicurezze illusorie al popolo che essi sottomettono per il loro tornaconto e a motivo delle loro brame di potere. Ma gli idoli che essi servono sono muti e sordi, incapaci di rispondere alle aspirazioni profonde dell’uomo.
Da questa situazione di estrema precarietà nasce in Israele l’attesa di un pastore fedele, che risponda alle aspettative di Dio. Anche questa aspirazione attraversa tutta la Bibbia, ma in alcuni momenti l’attesa di un messia giusto diventa particolarmente intensa e nel post-esilio – di fronte a un fallimento davvero globale – si afferma sempre più. Geremia ne aveva parlato come di un germoglio giusto: immagine suggestiva, perché il germoglio è un bocciolo che annuncia l’inizio di una nuova stagione. Nella sua valenza simbolica, il germoglio, a cui accenna Geremia, fa riferimento a una nuova fioritura della promessa davidica, mai venuta meno nella storia di Israele. Nel deserto arido di una nazione prostrata a motivo di capi indegni, il germoglio che porterà il nome di Signore-nostra-giustizia preannuncia una particolare presenza di Dio, pastore giusto, capo che non usa l’autorità per sfruttare e assoggettare, ma per sorreggere e salvare. Il tronco secco sarà di nuovo in fiore, perché Dio – ancora una volta – non ha dimenticato Israele e susciterà un novello Davide che custodirà il suo popolo.
Il Vangelo: Mc 6,30-34
Marco presenta Gesù come il novello Davide, che custodisce Israele e la sua presentazione è caratterizzata, nel testo odierno, da due connotati che rivestono un’importanza particolarmente suggestiva, perché disegnano la fisionomia del vero pastore
Al ritorno dalla missione Gesù invita i suoi ad andare in disparte, in un luogo deserto, per riposarsi. Sullo sfondo si staglia il Salmo 23 che evoca la cura amorosa di Dio pastore: Il Signore è il mio pastore: nulla mi manca. In pascoli verdeggianti mi fa riposare, ad acque tranquille egli mi conduce, ristora la mia anima. Il Dio di tenerezza non lascia che i suoi figli siano sopraffatti dall’affanno e dalla stanchezza. E tuttavia questa sottolineatura di tenerezza riveste in Marco una sfumatura particolare. Non si tratta solo della ben nota sensibilità marciana verso i particolari, ma di qualcosa che è simbolicamente rilevante. L’espressione greca kat’idian / in disparte viene utilizzata da Marco con una certa frequenza (2 volte nei pochi versetti del testo odierno) e rileva sempre la particolare intimità che in certi momenti si stabilisce tra Gesù e i suoi. Nel capitolo quarto, ad esempio, Marco dice che Gesù parlava alle folle in parabole, ma ai suoi discepoli, in disparte (kat’idian), spiegava ogni cosa. Così pure al momento della trasfigurazione, Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni in disparte (kat’idian) e si trasfigura davanti a loro. Essere in disparte, dunque, non è solo un rilevamento logistico, ma un invito all’intimità, alla confidenza, a stare con lui. Del resto, l’evangelista, con la massima chiarezza, al momento dell’istituzione del gruppo dei Dodici, rilevava che essi erano stati chiamati per stare con lui e per annunciare (il Vangelo) (Mc 3,14). È questo un connotato importante della vita del pastore e della vita di fede, in genere. La deformazione professionale, che spinge perennemente i pastori a dover “dare”, rischia di trascurare un compito ben più importante, che è quello di stare in disparte, per ascoltare il Pastore da cui tutto prende senso. L’idolatria, di cui tanto si parla nell’AT, nasce proprio dalla dimenticanza di stare con Jhwh e dei cristiani di stare con Lui.
Il secondo aspetto particolare del racconto odierno è offerto dalla compassione di Gesù per la folla abbandonata. Come abbiamo avuto più volte occasione di ricordare, le due radici che in ebraico e greco esprimono la compassione, hanno ben altri connotati dall’accezione comune che noi occidentali siamo soliti dare all’azione del compatire. Il sostantivo splanchna – usato nella bibbia quasi sempre al plurale – denota originariamente le parti interiori degli uomini e degli animali (le viscere), soprattutto in relazione al culto sacrificale, ma quando si parla della donna si fa riferimento all’utero materno. In ogni caso, le viscere nell’antichità biblica erano ritenute la sede delle emozioni e degli affetti (oggi il cuore) e quindi splanchnizomai / avere compassione (utilizzato da Marco nel nostro brano) ha a che fare con un impulso che viene dal profondo e muove alla responsabilità. È lo stesso sentimento che Luca pone nel Padre misericordioso che si commuove davanti a un figlio ingrato che torna a casa (Lc 15). Avere compassione è l’atteggiamento proprio di Dio ed è interessante che la compassione verso il popolo disperso a motivo di pastori rapaci e menzogneri, spinga Gesù a sentirsi responsabile anzitutto con l’insegnamento: fu mosso a compassione, perché erano come pecore senza pastore, e incominciò a insegnare loro molte cose. L’insegnamento di Gesù, di cui parlano i Vangeli, non è mai un cerebralismo astratto e sterile, offerto da una cattedra di pura sapienza mondana, ma un andare alla radice del bisogno, lì dove l’uomo spera di incontrare una parola di vita, che rigenera e sana, raccoglie e offre speranza per il futuro. Gli uomini ostentano la loro sapienza per soggiogare e fare carriera, Gesù – mosso da una profonda solidarietà per la debolezza umana – insegna per guarire e dare speranza a chi ormai l’ha perduta.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano