Il tema della Domenica
Nella vita di fede, come nel quotidiano, ci sono momenti discriminanti. Sono quelli in cui si approda a una resa dei conti. Si tratta di tempi decisivi, in cui magari si avverte che un progetto intrapreso e coltivato per tanto tempo, deve essere riposto nel cassetto; oppure, viceversa, che quanto ci sta davanti non può più essere dilazionato.
La Bibbia contiene pagine molto dense su queste alternative di fondo che, di tanto in tanto, tagliano la storia in due, facendo sì che ci sia un prima e un dopo. Le letture odierne presentano due momenti di questo tipo: il primo riguarda Israele che si trova a scegliere, sempre di nuovo, chi servire, e il secondo concerne i Dodici che, in un momento di crisi profonda nel ministero di Gesù, sono posti di fronte all’alternativa di rimanere o andarsene.
Prima lettura: Gs 24,1-2a.15-17.18b
La prima lettura tratta dal libro di Giosuè contiene la famosa pagina sul rinnovamento dell’alleanza. È un momento decisivo, perché Giosuè, che aveva introdotto il popolo nella terra, sta per morire. Come Mosè, prima della sua morte, aveva voluto rinnovare l’alleanza a Moab, così Giosuè raduna il popolo a Sichem per porlo davanti alla scelta di vita. La solennità dell’ora viene evidenziata sin dal primo versetto che presenta la convocazione di tutte le tribù di Israele e degli anziani, dei capi, dei giudici e degli scribi del popolo. Un’adunata generale, perché il momento è serio.
Leggendo l’intero capitolo, il lettore non può fare a meno di notare che sono due i verbi che dominano l’intera sezione: il verbo dare e il verbo servire. Il primo ha spesso come soggetto YHWH, visto come colui che dona. È stato Lui, infatti, a donare una discendenza ad Abramo, la libertà a un popolo schiavo, e una terra che Israele non aveva lavorato, con città che non aveva costruito e vigneti che non aveva piantato. Il dare di Dio, dunque, è stato un atto creativo e gratuito. Dando discendenza, terra, casa… Dio ha voluto mostrare al suo popolo la sua totale gratuità: il suo agire non è condizionato dall’avvenenza, né è in proporzione della dignità.
L’altro verbo strutturante è il verbo servire. In ebraico la radice ‘abad / servire è polisemica ed ha diverse accezioni, positive o negative, a seconda del contesto. Con essa si esprime la coltivazione della terra, la schiavitù a un padrone, ma anche il servizio e il culto a Dio. Un aspetto risalta però in maniera straordinaria: servire Dio non è mai schiavitù, ma libertà suprema, e onore. Tanto è vero che i grandi patriarchi e profeti sono chiamati servi di Dio, nel senso onorifico di persone che hanno ricevuto da Dio un’importante missione da portare a compimento.
Anche nel nostro brano servire ha questa accezione: significa riconoscere Dio come proprio interlocutore, decidersi per Lui, legando a Lui – padre e non padrone – il proprio destino. In tutta la Scrittura la libertà è una questione di rapporti: certamente si è liberi da qualcosa, ma soprattutto si è liberi per qualcosa, o meglio: per qualcuno. Essere liberati dalla schiavitù del faraone non significa entrare nell’anarchia, perché questa riporta inevitabilmente al punto di partenza. Si esce dalla servitù per entrare nel servizio: liberi dagli idoli per aderire al Dio vivo e vero, affrancati dalla schiavitù per servire i fratelli, liberi dal peccato per promuovere la giustizia, liberi dal legalismo per obbedire allo Spirito … Appare dunque evidente come in tutta la letteratura biblica non si possa dare vera libertà senza relazione a qualcuno. È questa, infatti, la professione sincera di tutto il popolo, riportata dal libro di Giosuè: «lungi da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi!… Noi vogliamo servire il Signore, perché egli è il nostro Dio». Il popolo riconosce che Dio non è nemico della libertà: al contrario, è Colui che ha guardato l’afflizione del suo popolo, è sceso a liberarlo… Ora è il popolo che si impegna a rimanere libero servendo il Signore.
Il Vangelo: Gv 6,60-69
L’alternativa tra libertà e schiavitù si ripropone in modo drammatico nel brano evangelico. Siamo all’epilogo del discorso sul pane di vita e questa volta, di fronte a un discorso così duro, non sono più solo i Giudei a mormorare, ma gli stessi discepoli. Di fronte a un fallimento così generalizzato, Gesù non addolcisce né il contenuto né il tono del suo discorso, perché non cerca il consenso e perché la riuscita della Parola non viaggia sulle ali del consenso, ma della fedeltà. Gesù, dunque, riprende il discorso, rendendolo ancora più scandaloso.
Di fronte ai discepoli attoniti parla della sua “ascensione”, che nel linguaggio giovanneo significa “morte in croce”. La croce piantata sulla terra, che si innalza verso il cielo, è il vero scandalo, perché per gli uni è maledizione e per gli altri salvezza. Il crocifisso innalzato è il segno discriminante tra chi non crede e chi crede: chi non crede vi scorge il supplizio di un condannato, estromesso per sempre dalla costruzione della società umana, fondata sul potere e sul successo; chi crede vi riconosce invece il trono regale, dove Dio siede per rovesciare le categorie idolatre di questo mondo. È la croce il vero scandalo, perché dice a tutti noi qual è l’alternativa che sta davanti a ciascuno: una rete di rapporti fondati su potere e successo o la gratuità e la dignità di rapporti autentici e fecondi.
Per ribadire la logica di Dio e la posta in gioco, Gesù aggiunge una frase difficile, ma molto significativa. Un enunciato che fa perno sull’opposizione carne – spirito: è lo Spirito che dà vita, la carne non giova a nulla. Le parole che vi ho detto sono spirito e vita. Gesù presenta qui due modi di leggere quanto accade nella vita di ciascuno e negli eventi del mondo. C’è una maniera “carnale”, che resta fuori, perché non arriva a comprendere veramente la ragione e il senso delle cose. È la condotta di chi gioca in superficie, senza andare a fondo, senza compromettersi. Sono quelli che, di fronte allo scandalo, voltano le spalle. E c’è invece un agire dello Spirito, che scruta le ragioni di fondo e agisce perché l’essere umano abbia la vita.
Il narratore segnala che, da quel momento, molti si tirarono indietro e non vollero più essere suoi discepoli. Un epilogo amaro, di fronte al quale, però, Gesù non ritratta. Rivolto ai Dodici, il cerchio più intimo, li apostrofa: “Volete andarvene anche voi?”. Si tratta di una domanda estrema, davanti alla quale ciascuno è chiamato a soppesarsi. La risposta di Pietro presenta l’alternativa alla lettura “carnale”, perché la sua professione di fede nel Dio della vita è una risposta data “nello spirito”. Nel suo discorso Gesù aveva spesso pronunciato l’«Io sono» e Pietro proclama con entusiasmo «Tu sei»: noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio. La vita di fede corre su questa profonda relazione del discepolo con «Colui che è». Si adoperano qui due verbi che, in Giovanni, sono in qualche modo la sintesi della vita cristiana: credere e conoscere. Sono verbi pregnanti, che nel linguaggio biblico dicono una relazione intima, per la quale si è disposti a giocarsi l’esistenza. È forse proprio questa la ragione per cui l’evangelista adopera solo qui un’espressione che invece è cara ai Sinottici: Gesù, il Santo di Dio. La santità è la relazione che unisce profondamente Gesù al Padre: un legame profondo che si riverbera, poi, nella fede dei discepoli. Fondati sulla relazione di appartenenza che lega Gesù al Padre, i credenti trovano la loro stabilità. In nessun altro, perché gli idoli non hanno parole di vita. È la fede dei Dodici e di tutti quelli che, come loro, di fronte all’alternativa, scelgono di restare con il Dio della Vita. Senza presunzione, però, perché in mezzo ai Dodici – ma anche in mezzo (e dentro) a ciascuno di noi – c’è ancora spazio per il tradimento.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano