Il tema della Domenica
Le letture odierne ci parlano di catene e lacci e dell’importanza di scioglierli. Si tratta di quei vincoli che rischiano di soffocare l’uomo: smarrimento e malattie, sordità e cecità di ogni tipo, incapacità di relazionarsi e di parlare. Il tempo messianico evocato da Isaia, e l’opera di Gesù in mezzo al suo popolo, mostrano come la liberazione di Dio raggiunge le donne e gli uomini nelle loro ristrettezze e in tutte quelle situazioni che costituiscono una sfida mortale alla dignità. Il rapporto tra salvezza e liberazione è il tema appassionante proposto dalla parola di Dio in questa domenica, tema che non concerne principalmente la dimensione cerebrale dell’esistenza, ma la sfera affettiva e corporale, volitiva e spirituale.
Prima lettura: Is 35,4-7a
Il capitolo 35 di Isaia, da cui è tratta la prima lettura, ci proietta nell’orizzonte della liberazione di Sion. Esso appartiene a una piccola unità letteraria, denominata dagli studiosi “la piccola Apocalisse di Isaia”, dove sono messe a confronto la sconfitta delle nazioni – il cui rappresentante per antonomasia è Edom (c. 34) – e la salvezza di Sion e dei suoi abitanti (c. 35). Noi, lettori moderni, proviamo una certa perplessità di fronte a un genere letterario così manicheo, in cui alla salvezza dell’uno corrisponde la rovina dell’altro. Giustamente, perché sappiamo che giustizia e ingiustizia, ragione e torto, … spesso coabitano in una stessa situazione, in una stessa nazione in uno stesso popolo. Dovremmo però pensare che, dietro categorie che hanno un tenore abbastanza classico per le culture del tempo, l’autore biblico legge sempre una storia di liberazione degli oppressi. Il Dio biblico non è un Dio che sta a guardare, ma prende parte e si schiera dalla parte degli innocenti violentati e oppressi a qualunque popolo appartengono. Dio prende posizione, mettendosi dalla parte dei piccoli, soprattutto quando essi si trovano in balia di potenti che sottomettono, abusano e distruggono. Dio difende i deboli, anche se questa difesa comporta una presa di posizione netta e una mano ferma. Partendo da questo dato non è difficile capire perché la Bibbia contenga molte pagine sulla salvezza di un “resto” abbandonato dai potenti di turno in balia del sopruso. È questa la situazione evocata dalla lettura di Isaia.
Il capitolo inizia con un invito alla gioia, rivolto a Sion, e alla stessa natura, che partecipa della situazione penosa in cui si trovano gli abitanti. Si menzionano l’aridità della steppa e le braccia fiacche: immagini che rendono plasticamente lo scoramento generale, ma che danno anche più risalto all’atto liberatorio di Dio, che trasforma ogni cosa. Il cambiamento viene presentato mediante delle metafore che riguardano i poveri segnati nel corpo e nello spirito. Immagini che non escludono situazioni reali, ma le rendono paradigmatiche per ogni tempo e ogni luogo, compresi i nostri. La prima è quella degli smarriti di cuore: sono persone fortemente sfiduciate di fronte alla prepotenza, perché l’esperienza insegna che i forti vincono sempre e i loro disegni sono sempre coronati da successo, al contrario di quanto avviene con i piccoli e i poveri. La seconda metafora riguarda i ciechi e i sordi, ossia quelle infermità – del corpo e dello spirito – che rendono impossibile una percezione serena di sé e degli altri. Metafore, dunque, di una situazione che sembra priva di speranza, perché la salvezza non ha la forza di germogliare e lo smarrimento serpeggia come il primo segnale di una disperazione incipiente.
A tutti costoro il profeta annuncia: coraggio non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi. Siamo così assuefatti a questo annuncio salvifico che per noi rischia di suonare come un messaggio corroso e svuotato di contenuto effettivo. Eppure, se leggiamo con attenzione i segni che sbocciano nel quotidiano, non possiamo non accorgerci che è proprio grazie a questa speranza che tanti uomini e donne continuano a porsi dalla parte degli sventurati che subiscono oltraggio e violenza, tante madri e padri non si lasciano catturare dalla disperazione di fronte alla morte di un figlio, tanti giovani trovano il coraggio di varcare la sicurezza del proprio orticello, per tuffarsi là dove l’uomo è affamato e assetato, calpestato e vilipeso… Ma il messaggio salvifico ha anche un’altra funzione: quella di mobilitare le coscienze dei credenti. Non possiamo sbarazzarci della terra perché contiamo su Dio, né barattare la responsabilità per il mondo con la tranquillità della nostra anima. Insieme a Dio, siamo tutti portatori di una speranza messianica che ci chiama a seminare germogli di vita tra i crepacci della storia.
Il Vangelo: Mc 7,31-37
Marco legge la guarigione di un sordomuto nelle regioni di Tiro e Sidone, alla luce del testo di Isaia, appena trattato, mettendo sulla bocca della folla espressioni che evocano proprio il testo profetico: ha fatto bene ogni cosa, fa perfino udire i sordi e parlare i muti. La salvezza messianica profetizzata da Isaia trova, dunque, il suo compimento nell’opera di Gesù. È notevole che Marco ponga il miracolo in un territorio popolato di pagani, ma è soprattutto importante che Gesù guarisca con l’unica parola messa sulla sua bocca in stile diretto e in lingua originale aramaica: effatha / apriti! Grazie a questo unico comando le orecchie del sordomuto si aprirono e la sua lingua si sciolse.
Gesù libera quell’uomo dalle catene che lo tenevano prigioniero. Certo, la salvezza cristiana non può ridursi semplicemente a una liberazione umana e non si può definire salvezza quella che non riguarda tutto l’essere, la pienezza umana nelle sue componenti spirituali e fisiche, personali e relazionali. E tuttavia là dove la malattia prostra l’uomo, la salvezza è lacerata, come pure là dove la mancanza di lavoro rende incerto l’avvenire e dove l’ingiustizia minaccia l’esistenza. È vero che la salvezza riguarda l’essere e, per questo, non può limitarsi a cambiare le strutture e ridursi ad avere qualcosa di più e qualcosa di meglio di quanto si possiede. E tuttavia dobbiamo affermare che la salvezza di Dio si afferma e si realizza anche nella liberazione dell’uomo. Non solo si può e si deve dire che la salvezza è liberazione, ma si può e si deve dire che la presenza salvifica di Dio nella storia non è estranea ai frammenti di speranza, che germogliano qua e là sulla faccia della terra. Per troppo tempo lo spirituale è stato considerato superiore al temporale, senza pensare che Cristo si è fatto carne perché ogni essere umano raggiunga la sua pienezza.
Effathà è un grido di liberazione che guarisce e salva. La libertà di cui si parla nella Bibbia è legata alla totalità, all’essere, all’universalità, all’eternità e all’amore. E di questo solo Dio è capace. La Bibbia non riconosce all’essere umano il potere di essere artefice assoluto di salvezza universale e perenne, perché l’uomo non arriva alle profondità dell’essere e dell’amore, alla totalità e all’universalità dell’esperienza. Artefice della salvezza è solo Dio. E tuttavia, proprio per questo, ci è dato un compito: favorire la nascita di quei frammenti di liberazione che testimoniano la redenzione che solo Dio può realizzare. Le liberazioni umane, dunque, non sono estranee alla salvezza. Lo testimonia anche lo stesso vocabolario biblico che definisce sia la liberazione dal peccato sia la guarigione della malattia, la restituzione dell’integrità fisica e psichica, la pienezza della vita umana in tutte le sue componenti. E lo testimonia, soprattutto, la coscienza messianica di Gesù, con il dono della sua esistenza, perché l’essere umano abbia la vita, e l’abbia in pienezza.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano