Il tema della Domenica
Nel discorso antropologico e letterario, la via ha assunto spesso una dimensione simbolica, finendo per rappresentare il cammino dell’uomo, la sua vita. Anche dagli evangelisti la via è stata assunta sia come simbolo del Figlio dell’uomo che cammina verso la croce, sia come via umana lastricata dal pianto del dolore e della morte. Dai capolavori dell’antichità, fino ai nostri giorni, non c’è discorso più radicale e appassionato di questo, e le risposte, succedutesi lungo i secoli, sono soltanto tentativi di far fronte al dolore, uno scandalo supremo, che ci turba. È possibile spogliare la sofferenza del suo mortale fardello? Come si può accettare lo smacco che il dolore e la morte infliggono a un uomo assetato di vita? Nella vicenda del servitore di YHWH, presentata nella prima lettura, e del servo Gesù proposta nel Vangelo, la strada di Dio incrocia la strada umana, additando un senso.
Prima lettura: Is 50,5-9a
La prima lettura riporta un brano famoso, conosciuto dagli studiosi come il terzo canto del servitore di JHWH. Anche se il testo non contiene la parola “servo”, diversi motivi fanno ritenere che anch’esso faccia parte di quei brani di Isaia che presentano un personaggio misterioso, descritto come un profeta disarmato e rigettato, con una missione straordinariamente importante.
L’inizio di questo terzo canto è dominato dai motivi della parola e dell’ascolto. L’orecchio e la lingua da discepolo sottolineano l’atteggiamento di ascolto e di dedizione che contraddistingue la fedeltà del servo. Già nel primo canto si affermava che la sua parola avrebbe proclamato l’esigente volontà divina senza retorica e senza dispiegamento di mezzi e di uomini, con la sola preoccupazione di non tradire il messaggio. Perché la parola che fa affidamento sulle casse di risonanza e su gesti straordinari rischia di essere soggetta alle leggi del mercato, alle esigenze della richiesta e dell’offerta. L’annuncio del servo, invece, trova il suo unico punto d’appoggio nella fedeltà e nell’amore.
Fedeltà e amore nei confronti di Dio, anzitutto. Non oppone resistenza e non si tira indietro: non fugge, come fece Giona né si ribella, come fece Geremia. Vive la sua missione, mettendo Dio al primo posto. Ma anche fedeltà e amore nei confronti dei destinatari del suo messaggio. Con la forza dei miti, non risponde al male con il male: insultato e percosso, bersaglio di sputi e oltraggi, non cerca vendetta. Mette in crisi non solo la logica di Lamec (Gen 4), che prevede una ritorsione senza limiti («se Caino sarà vendicato sette volte, Lamec lo sarà settanta volte sette»), ma anche la visuale della legge del taglione, che pure rappresentava un progresso rispetto alla legge di Lamec. Il servo non solo non risponde all’offesa con la vendetta o al sopruso con l’oltraggio, ma in silenzio porta il peccato dei malfattori e soffre per una pena non dovuta.
L’accumulo di termini giuridici negli ultimi versi fa pensare a un giudizio che il servo deve subire davanti al tribunale umano. I suoi avversari lo accusano, ma egli non si tira indietro, certo che Dio non lo abbandonerà: YHWH stesso prenderà le sue difese e i nemici non prevarranno. Così, grazie alla potenza di Dio e alla sua fedeltà, il dolore diventa un terreno fecondo, dove le piaghe degli uomini possono essere guarite e le ferite risanate.
Il Vangelo: Mc 8,27-35
La parola evangelica approfondisce il discorso appena iniziato. La menzione della via è posta in evidenza, con l’interrogativo di Gesù ai suoi discepoli lungo la via. Sulle strade della Galilea, Gesù aveva rivelato il suo cammino messianico, e i discepoli finalmente arrivano a riconoscerlo, per bocca di Pietro, che proclama: «tu sei il messia». Ma questo non è tutto. Non basta professare la propria fede per essere discepoli. Pietro – e con lui ogni lettore – è chiamato ad accettare l’immagine di un messia scandaloso, che – alla pari del servo – non viaggia sulle ali del consenso popolare. Per essere veri discepoli, insegna Gesù, è necessario prendere la propria croce. Parola dura e scandalosa, che va compresa, però, e meditata più di ogni altra, perché caratterizza l’identità del Dio cristiano.
Prendere la propria croce significa anzitutto appartenere a Qualcuno. Nella visuale cristiana, la croce non è primariamente il simbolo dell’ascesi, e tanto meno il simbolo della rassegnazione. Dio non ha creato la sofferenza e la morte. La croce è anzitutto il simbolo di un amore che ha il potere di trasfigurare il fallimento e la morte. Il profeta Ezechiele racconta di un uomo vestito di lino che riceve da Dio l’ordine di segnare con la lettera ebraica tau la fronte dei fedeli. Anticamente la lettera aveva forma di croce (T). Anche in Ap 7 un angelo segna con il sigillo la fronte dei 144.000 e, nella chiesa primitiva, la lettera tau specifica la sequela cristiana. Ecco il senso della croce: segno di appartenenza, di fedeltà e di vittoria. Certamente i lettori reali di Marco avevano davanti agli occhi i condannati a morte costretti, secondo l’uso romano, a portare il legno del supplizio sulle spalle, ma ai loro occhi il Maestro aveva trasfigurato la condanna in fedeltà e amore.
La seconda annotazione spiega ancora di più il senso della croce. Gesù lega la croce al rinnegamento di sé. In che modo va inteso questo legame? La psicologia insiste giustamente sull’accettazione di sé come fondamento di ogni autentica crescita umana e spirituale. Ma la proposta evangelica è ad un altro livello. La richiesta di Gesù esige un cambio di prospettiva, che va dal sé all’Altro. Chiedendo di rinnegare se stessi, Gesù presenta una salvezza, che non passa per le strade dell’egotismo e dell’idolatria, ma sulle strade dell’oblazione, nel rapporto con Colui che ha dato la sua vita «in riscatto per i molti». Salvare e perdere la propria vita rappresentano, dunque, due modi di rapportarsi alla propria esistenza concreta. Il primo consiste nella scelta di vivere per il proprio successo e il proprio potere, il secondo consiste nella scelta di vivere e di morire per l’Altro/altro. È questa l’alternativa posta da Gesù: la voracità dell’«io» porta il mondo e gli esseri umani alla rovina (è quanto stiamo purtroppo vivendo); fare di sé la meta ultima da perseguire distrugge ogni rapporto. Soltanto il dono di sé conduce alla salvezza. Non si tratta di una parenesi destinata a stimolare un cammino ascetico di auto-rinuncia, e neppure di un invito a un’autostima sottotono; non viene suggerito il distacco stoico da se stessi e dalle cose del mondo. È un problema sul senso della vita e sulla forza che la fede può attuare in chi accoglie la Parola. Perché nella fede ha senso non solo il fiore che sboccia, ma anche la foglia che marcisce.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano