Commento alla Parola nella XXIX Domenica del Tempo Ordinario /B – 20 ottobre 2024

Il tema della Domenica

In un suggestivo e drammatico contrasto, le letture di questa domenica ci presentano, da una parte, il quarto canto del servitore di YHWH, nel famoso passaggio che ne fa il profeta Isaia e, dall’altra, la richiesta dei due figli di Zebedeo che vogliono i primi posti nel Regno. Contrasto suggestivo, perché nel primo caso c’è una vita il cui senso consiste nel dono e nel servizio che libera, mentre nell’altro la vita è intesa come scalata al potere. Due maniere di porsi di fronte alla propria esistenza; scelte che interpellano il credente di ogni tempo, eternamente tentato anche lui – come ogni uomo – di vivere di sé e per sé.

Prima lettura: Is 53,2-3.10-11

Il quarto canto è il più celebre e il più impegnativo dei canti del servitore di YHWH. Vi viene descritta la parabola di vita del servitore: una parabola d’amore silenzioso e gratuito. È cresciuto come un germoglio nel deserto, dove l’uomo non semina, non miete e non raccoglie nei granai. Nel deserto si fa esperienza di gratuità ed egli, in una terra arida, è vissuto grazie unicamente all’intervento di Dio (cf. Dt 8,15-16). Privo di vesti sontuose e della prestanza dei forti, il suo vestito non si è logorato e il suo piede non si è gonfiato (Dt 8,4) ma, al pari di Giobbe e dei poveri, gli anawîm JHWH, subisce il disprezzo degli esseri umani, che lo detestano. Macilento e malandato, agli occhi di tutti è un peccatore castigato! Nessuno si accorge che egli non paga per le sue colpe e non viene colpito per i suoi misfatti. Egli subisce il castigo di un’iniquità che non ha commesso: innocente, si è fatto solidale con un popolo peccatore e, da solo, ne porta il peso. Avrebbe diritto a ribellarsi, lui che non conosce peccato, ma – a differenza di Giobbe e degli altri poveri ingiustamente perseguitati – non apre bocca: non si erge contro Dio e non si scaglia contro gli uomini. Resta solo, con il suo silenzio e le sue piaghe. La sua discesa nell’abisso del male e del castigo è totale; la sua solidarietà arriva fino alla fossa comune dei giustiziati.

Ma ecco il portento: il suo amore, che lo ha spinto ad addossarsi la colpa di altri, feconda il terreno sotterraneo dove abita la morte; l’offerta della sua vita innocente espia le colpe dei peccatori (v. 10). È grazie al suo amore solidale che il cammino di morte si trasforma in vita e luce. Dopo il tormento arriva alla conoscenza di YHWH, perché questa è la vita: conoscere Lui (cf. Gv 17,3). La solenne dichiarazione di Dio a suo favore ribalta la sentenza di condanna: la vita del servo, con il suo silenzio e il suo dolore, era una preghiera d’intercessione, presentata a Dio per la giustificazione di tutti. La sua condizione di «maledetto» non era conseguenza del suo peccato, ma del suo amore per l’uomo che si era caricato come fardello. Si era caricato dei peccati e aveva portato con amore solidale le iniquità dei fratelli e, portandole, aveva ottenuto la riconciliazione.

La vicenda del servo pone l’interrogativo della sofferenza e del senso di una vita segnata dal dolore, soprattutto innocente. Ma pone soprattutto un punto decisivo, mostrando come l’amore è l’unica forza capace di vincere il negativo della vita. Non la salute, non la bellezza, non il potere… Nella vicenda del servitore ci viene detto che le piaghe guariscono altre piaghe e che la condivisione della sofferenza offre ristoro, anche quando sembra inutile, perché l’amico vero non è colui che ha la soluzione bella e pronta, ma colui che sta vicino anche quando non c’è soluzione. Nella condivisione della sofferenza guariscono le ferite e si rivela il mistero del chicco di grano che, morendo, porta frutto (Gv 12,24). Se la filosofia persuade ad accettare la sofferenza e Socrate muore come modello dell’uomo libero, Gesù muore perché l’essere umano abbia la vita. La morte non va accettata, ma sconfitta, con l’amore solidale, l’unica forza capace di far lievitare il negativo della vita.

Il Vangelo: Mc 10,35-45

Come gli altri annunci della passione che Gesù aveva presentato ai suoi discepoli, anche il terzo è seguito dalla loro reazione, con la segnalazione della totale incomprensione della strada di Dio. Giacomo e Giovanni sono due tra i primi chiamati e la loro richiesta di occupare i posti di destra e sinistra nell’avvento glorioso di Gesù (v. 37) va compresa alla luce della profezia di Dan 7, secondo cui il Figlio dell’uomo sarebbe venuto alla fine dei tempi come giudice e Signore di un regno eterno. In questo regno i due fratelli desiderano i posti d’onore. La contro-domanda di Gesù (v. 38) sconvolge la prospettiva della loro richiesta, puntando l’attenzione sul calice e sul battesimo. La menzione del «calice» evoca la sofferenza (Sal 75,9; Is 51,17; cf. Mc 14,36) e «il battesimo» – con l’immersione – è il simbolo della morte. Gesù dunque, attraverso queste metafore, riporta i due fratelli all’autentica comprensione del Regno e della paradossale logica che lo contraddistingue: partecipa al Regno chi – come Gesù – è in grado di dare la propria vita per amore.

L’entrata in scena degli altri dieci dà maggior forza all’ecclesialità dell’istruzione seguente che sottolinea la differenza tra i potentati del mondo e la chiesa di Cristo. L’espressione «fra di voi», ripetuta per 3 volte, funge da polo catalizzatore dell’attenzione dei lettori e da tramite di una regola comunitaria dove vige un nuovo ordine: nella chiesa di Dio i rapporti sono regolati sulla base dell’oblazione e non del potere. La croce diventa, così, in Marco, non solo epifania delle vie paradossali di Dio, ma anche modello del cammino di chi decide di seguirlo.

Non si è lontani dalla verità se si ipotizza che i discepoli descritti da Marco nel suo Vangelo rappresentano in qualche modo i lettori reali del suo tempo, e di ogni tempo. Essi pensano a Gesù come un uomo dotato di poteri divini (theios anêr), un taumaturgo potente, un eroe onnipotente. Probabilmente sono lettori “entusiasti”, che si concentrano sulla risurrezione come evento salvifico e la cui ecclesiologia è fortemente impregnata dai modelli imperiali del tempo, incentrati sul potere e sul successo. A questa idea del Cristo e della chiesa, Marco oppone una figura di “lettore modello” incentrata sull’oblazione. All’inizio del suo Vangelo, Marco non specifica la tentazione di Gesù, alla stregua di Matteo e Luca; dice solo che Gesù «era tentato». Gradualmente, lungo tutto il racconto, il lettore viene edotto sulla reale tentazione di Gesù (e della chiesa primitiva): la fiducia in sé e nella potenza del mondo piuttosto che in Dio. È questa l’alternativa radicale, davanti alla quale è posto il Messia, la comunità cristiana e il singolo credente; un’alternativa che Agostino esprimeva così: «l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé». Gesù ha vinto la tentazione e ha scelto la dimenticanza di sé per consegnarsi all’uomo: è questo il senso della croce. E, in questo modo, ha rivelato Dio e il suo disegno di amore. La croce, dunque, nella prospettiva cristiana, va letta come un dono che non esige e non schiaccia: un cammino di salvezza, che non vuole “conquistare” l’altro, ma servirlo, liberandolo dalle schiavitù e dalle alienazioni.

Ieri come oggi, nel mondo e nella chiesa, l’etica dominante è dalla parte del potere e non dell’amore crocifisso. La croce, invece, mostra l’altra faccia delle cose: dice che la vittoria non è nel successo, ma nell’oblazione, e che la salvezza dell’uomo è fondata non sul piedistallo delle diplomazie o della sapienza mondana, ma sulle pietre che i costruttori hanno scartato (cf. Mc 12,10).

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano