Commento alla Parola nella XXV Domenica del Tempo Ordinario /B – 22 settembre 2024

Il tema della Domenica

Il tema della vera grandezza ricorre spesso nella Bibbia, sempre inserito in un discorso più ampio, che mette a confronto la logica divina con quella mondana. Il motivo ritorna, insistente, anche nella lettera di Giacomo e nel Vangelo, proposti oggi alla nostra attenzione. Non è un tema secondario, perché concerne l’orientamento di fondo della vita, come mostra lo stesso peccato delle origini, che viene descritto nella Bibbia come cupidigia, avidità. In fondo, il discorso biblico riconduce la lotta per il potere a un problema teologico, che concerne la visione stessa di Dio. Mentre l’essere umano, con la sua sete di potere, dà la scalata al cielo, la sapienza divina mostra la strada dell’abbassamento come quella che conduce alla vita. La distanza tra il regno dell’uomo e il regno di Dio, in fondo, è proprio qui. 

Seconda lettura: Gc 3,16-4,3

Al centro della sua lettera, Giacomo pone il tema della Sapienza, che si traduce nella concretezza dell’agire quotidiano, e lo fa contrapponendo il saggio secondo Dio e quello secondo l’uomo. L’autore della lettera censura spesso l’atteggiamento poco sapiente della sua comunità cristiana, evidenziandone gli aspetti che contrastano con la visione di Dio. Nel nostro brano sembra quasi che voglia arrivare al nocciolo della questione, alla radice del problema: «da dove derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?». E risponde: «dalle vostre passioni». Si tratta, dunque, di capire quale sia la ragione ultima delle contese e delle gelosie, che serpeggiano nella comunità, e Giacomo non ha dubbi.

Il termine greco hedonai (piaceri, passioni) potrebbe far pensare all’edonismo come radice dei mali. Ma questo concetto, dal sapore tipicamente greco, non rispetterebbe la comprensione giudaica che Giacomo mostra di avere dei problemi. Utilizzando il termine hedone, Giacomo pensa piuttosto alla radice alla bramosia, all’ingordigia, il desiderio di possesso e di autosufficienza che attanaglia l’essere umano e lo porta a esercitare uno spietato dominio sulle cose e sulle persone, senza ottenerne nulla in cambio. In questo senso si comprende anche la citazione della Scrittura che Giacomo richiama poco dopo, quando afferma che «Dio resiste ai superbi, mentre agli umili dona la sua grazia». In realtà è proprio la sete di potere che conduce l’uomo alla lotta perenne con l’altro/a, alle gelosie, alla guerra. La piccolezza, invece, è l’atteggiamento che più si addice al cristiano, perché lo colloca nel contesto di chi accoglie il dono, senza la pretesa di voler accaparrare tutto mediante una lotta di potere, che inquina il cristianesimo nelle sue stesse fondamenta.

In una lezione sull’ecclesiologia del Vaticano II, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, J. Ratzinger, affermava: «… la prima parola della chiesa è Cristo e non se stessa; essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è rivolta a lui… Infatti una chiesa, che esiste solo per se stessa, sarebbe superflua… La crisi della chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è “crisi di Dio”; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve n’è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c’è bisogno della chiesa». Di questa lotta sono inficiati il mondo e la chiesa, fin dalle origini, come testimonia il Vangelo di Marco.

Il Vangelo: Mc 9,30-37

La lotta per il potere da parte dei Dodici si svolge sulla strada che va a Gerusalemme e subito dopo il secondo annuncio della passione. Per due volte viene menzionata la strada come luogo in cui avviene la discussione sul più grande. Di nuovo Marco sceglie il paradosso per scuotere e indurre alla riflessione: quella strada, che il Figlio dell’uomo percorre per amore, la strada simbolo del dono di sé e del «perdere la vita», diventa per i discepoli la palestra dove si lotta per il primo posto.

Mentre, dopo il primo annuncio della passione, era Pietro che mostrava di non aver capito nulla, dopo il secondo annuncio l’incomprensione diventa generale. Il contesto mostra chiaramente che, a questo punto, il non capire dei discepoli corrisponde piuttosto a un “non voler capire” e il silenzio imbarazzato, senza domande chiarificatrici, si inserisce perfettamente nel contesto marciano dell’incomprensione e dell’incredulità dei seguaci di Gesù.

Di fronte all’interrogativo posto da Gesù i discepoli tacciono e, in questo “loquace” quanto imbarazzante silenzio, risuona la convocazione dei dodici (v. 35). È singolare che la convocazione avvenga a Cafarnao, nella casa. La città e la preposizione davanti al sostantivo rimandano forse a un luogo conosciuto e Marco, probabilmente, fa riferimento alla casa di Pietro (cf. 1,29) che avrebbe, allora, una funzione ecclesiale ancora più evidente. Alla comunità ecclesiale, che conosce le lotte intestine sul «più grande», Gesù rivolge la sua istruzione sul bambino.

L’insegnamento inizia con un logion sul servizio (v. 35), seguito dal gesto del bambino posto in mezzo (v. 36) e da un secondo logion sull’accoglienza (v. 37). Nell’omiletica cristiana, l’abbraccio del bambino è stato comunemente inteso come una consacrazione dell’innocenza o come un appello alla purezza originaria, ma bisogna osservare che il cristianesimo non consacra alcuna romantica idealizzazione dello stato o dell’innocenza infantile. Nel parallelo di Matteo 18 il senso profondo del gesto è illustrato dalle parole che richiedono ai discepoli la conversione e la piccolezza. In Marco non abbiamo la stessa sequenza matteana, ma il significato del bambino posto in mezzo ai discepoli viene illustrato dai logia che precedono e seguono: «se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti». Primo e ultimo designano qui il grado di dignità e di rango sociale. Gesù afferma, dunque, qualcosa di paradossale: la salvezza del mondo non passa sulla strada del potere ingordo e distruttivo, ma sulla strada degli ultimi, che accettano per amore il dono e il servizio. È lo stesso paradosso del Figlio dell’uomo, che ha scelto la strada degli ultimi nella diakonia della croce. Il bambino diventa così il simbolo dell’impotenza della croce. Un’impotenza che salva.

Il secondo logion che chiarifica il gesto di Gesù concerne l’ospitalità, che non è ovviamente un tema da salotto: «chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me…». Il bambino diventa qui simbolo dell’uomo bisognoso, privo di mezzi e di prestigio. L’ospitalità, se vuole essere tale, va alla radice del problema e accoglie l’altro/a come bisognoso/a. La difesa dei propri privilegi, dei propri interessi e del proprio potere distrugge ogni possibilità di accoglienza. Gli altri/le altre si sentiranno sempre nel cerchio degli stranieri e degli estranei.  Prestare servizio ai bambini bisognosi (e a quelli come loro) è una raccomandazione costante nelle religioni e nelle chiese, ma il lettore cristiano coglie nel testo una sfumatura più incisiva: l’equivalenza tra il bambino e Cristo, servo sofferente e rigettato dagli uomini. Ecco la vera grandezza di una comunità ecclesiale: porre al centro delle proprie attenzioni i bisognosi. Oppure – ma è dire la stessa cosa – mettere al centro Gesù, il bisognoso per antonomasia. Il bambino, insomma, è l’immagine del cammino di Cristo e della sua scelta paradossale: stare dalla parte dell’amore e non sul piedistallo dell’affermazione di sé.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano