Commento alla Parola nella XXVI Domenica del Tempo Ordinario /B – 29 settembre 2024

Il tema della Domenica

La tentazione di imbrigliare Dio è ricorrente nella storia della salvezza e appartiene, per lo più, a persone e istituzioni di una certa integrità, che hanno in affidamento un patrimonio di grande valore. In fondo, è stata anche la tentazione di Israele, che considerava l’essere discendenza di Abramo un inossidabile privilegio, che non apparteneva a nessun altro. Vero, e tuttavia limitante perché «Dio può far nascere i figli di Abramo anche da queste pietre» (Mt 3,9). Il brano tratto dal libro dei Numeri e il testo evangelico ci mettono a confronto con gli spazi dello Spirito, così ampi rispetto agli orticelli coltivati dalla sapienza umana! Un confronto sempre necessario, se si vogliono evitare arroccamenti e fondamentalismi distruttori. 

Prima lettura: Nm 11,25-29

Il racconto del libro dei Numeri s’inquadra nel contesto delle mormorazioni del popolo nel deserto. Il brano che precede la lettura ascoltata oggi narra di un popolo stanco di mangiare la manna del deserto e voglioso di ritornare al cibo egiziano. Non importa essere un popolo libero; conta il pane e ci si sottomette volentieri a chi offre pane. Mosè appare stanco e sfiduciato e, in un crescendo drammatico, arriva a rimproverare Dio del peso che gli grava sulle spalle, con delle espressioni di una intensità lirica fuori dell’ordinario: «l’ho forse concepito io questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: portalo in grembo come la balia porta il bambino lattante fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri?… Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire…» (Nm 11,12-15). Non è l’unico caso biblico in cui un uomo di Dio, gravato di immensa responsabilità, chiede di morire. Vengono alla mente le parole terribili di Geremia: «maledetto il giorno in cui io nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce…», (Ger 20,14) o lo sfogo di Elia nel deserto: «non sono migliore dei miei padri!».

La risposta di YHWH non si lascia attendere e, invece di rimproverare Mosè per la sua incredulità, piuttosto inaspettatamente decide di alleggerirne il peso, offrendo l’aiuto di 70 anziani, su cui viene effuso lo stesso Spirito che accompagnava lo stesso Mosè. Si tratta di una bella testimonianza del carattere istituzionale della profezia, a cui il narratore affianca però subito la dimensione carismatica con l’inserzione di un episodio piuttosto singolare che vede protagonisti due personaggi che non si erano uniti ai settanta nella tenda del convegno. Rimasti nell’accampamento, vengono investiti anche loro dallo Spirito di Dio e incominciano a profetizzare, con forte disappunto di Giosuè, che vorrebbe il carisma completamente sottomesso al potere. Mosè, invece, mostra tutta la sua saggezza, accogliendo il bene da qualunque parte esso venga: «fossero tutti profeti nel popolo del Signore!». Il rapporto tra carisma e istituzione è sempre stato alla base di conflitti, incomprensioni ed emarginazioni. Il profeta rifiutato è una costante nella storia sacra e profana, delle istituzioni civili ed ecclesiali. È evidente che la Parola ascoltata oggi nella liturgia non vuole in nessun modo rendere indipendente la profezia dall’istituzione e lo stesso Paolo, nei famosi capitoli 12 e 13 della lettera ai Corinti, farà notare come la bramosia di potere possa annidarsi anche nell’anelito ai doni dello Spirito. E tuttavia, esiste anche l’altro versante su cui riflettere: voler imbrigliare lo Spirito è una costante nella storia di salvezza ed è purtroppo comune il tentativo di confinarlo all’interno delle planimetrie disegnate dalla nostra ristrettezza mentale. La Parola ci mostra che lo Spirito pervade uomini e donne di ogni latitudine, popolo e nazione e gli steccati creati dal potere non potranno mai ingabbiarlo. Si potranno uccidere i profeti, ma non si riuscirà a estinguere lo Spirito. 

Il Vangelo: Mc 9,38-48

L’episodio di un esorcista che caccia i demoni nel nome di Gesù, ma non appartiene al gruppo dei discepoli, ci conduce ad approfondire il tema. Non è strano che si utilizzasse il nome di Gesù per fare esorcismi: l’arte degli scongiuri e delle maledizioni si serviva sempre di qualche nome prestigioso e conosciuto. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe parla di un esorcismo effettuato in nome di Salomone e gli Atti ci parlano spesso di esorcismi e guarigioni fatti nel nome di Gesù. Nel nostro caso si tratta di un estraneo al gruppo e questo provoca la reazione sdegnata dei discepoli.

All’interpretazione dell’episodio contribuisce in maniera sostanziale il contesto. Ci si domanda per quale ragione il racconto di questo esorcista sia inserito tra la scena dell’accoglienza dei bambini (che precede) e l’ammonimento sullo scandalo dei piccoli (che segue). Si ha la chiara sensazione che originariamente l’episodio doveva essere indipendente dall’attuale contesto, tanto più che il tema dei bambini sarebbe perfettamente in sintonia con quello dello scandalo dei piccoli che viene invece posposto. Perché dunque Marco ha operato questa forzatura, rendendo così poco scorrevole la successione dei temi? Si ha l’impressione che l’inserzione dell’esorcista estraneo al gruppo risponda a una precisa strategia: coloro che sono così rigidi nel difendere l’ortodossia si mostrano poi così poco sensibili a un tema ben più radicale: quello dello scandalo dei piccoli nella comunità. Questo è il vero scandalo!

Quanto vado dicendo, si comprende forse ancora meglio se approfondiamo il significato che ha il termine greco mikros / piccolo. Una certa lettura cristiana ha visto nei piccoli dei bambini che subiscono lo scandalo degli adulti. Ma questa visione è assai riduttiva, perché Marco fa comprendere chiaramente che i piccoli di cui si parla qui sono dei credenti e non dei “bambini” veri e propri. In ambito greco l’aggettivo mikros non è usuale per designare i “bambini” in senso proprio, e anche in aramaico non si trova “piccolo” come designazione di un fanciullo. Il termine è invece attestato per designare una categoria di uomini ritenuti inferiori e disprezzati. Anche nella traduzione greca dei LXX, mikros designa qualcuno o qualcosa di secondo rango. In 1Sam 9,21 infatti Saul, di fronte a Samuele che gli offre prospettive regali, risponde di appartenere a una tribù piccola (insignificante) e in Mc 4,31 il più piccolo (mikros!) di tutti i semi è una metafora dell’apparente insignificanza della predicazione di Gesù.

I piccoli, dunque, non sono dei bambini in senso proprio; si tratta, invece, di quella particolare categoria di credenti che rischia di perdersi a motivo dell’arroganza e dell’abuso subìto nella comunità dei credenti. Forse si tratta di membri della comunità cristiana poco stimati da coloro che sono ritenuti invece “forti” (qualcosa di analogo avviene nella comunità di Roma, come si evince da Rm 15). Ecco, dunque, il problema della comunità: da una parte un’ortodossia identitaria forte nei confronti degli estranei e, dall’altra, il disprezzo dei deboli che sono all’interno della comunità. Marco riporta al centro ciò che è il cuore della fede cristiana e lo fa con parole crude, rivolgendosi ai “forti” e mettendoli in guardia dal pericolo di causare la defezione dei “deboli”. Il monito severo mostra la gravità della situazione.

È significativo il messaggio che ci arriva dalla Parola di Dio oggi: una comunità cristiana non trova la sua identità prendendo le distanze dal bene che alberga in altri contesti e in altre istituzioni, ma ponendo al centro delle sue preoccupazioni i piccoli, i deboli, i rifiutati. Nel nome di Gesù, che ha scelto l’amore come unica forza per sanare i conflitti e rigenerare le ferite.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano