Commento alla Parola nella XXVII Domenica del Tempo Ordinario /B – 6 ottobre 2024

Il tema della Domenica

Un detto rabbinico afferma che il celibe diminuisce l’immagine di Dio, perché solo l’uomo e la donna insieme, nel mistero della loro intima reciprocità, rendono presente il volto di Dio, come sta scritto: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Questa visione, che doveva essere dominante al tempo del Nuovo Testamento, è stata certamente relativizzata dalla scelta e dall’esperienza di Gesù, che preferì la via del celibato, nel dono totale a Dio e al suo Regno e, tuttavia, quella massima rabbinica ha il pregio di mettere in evidenza un aspetto della vita di fede che è fondamentale e imprescindibile sia per chi ha scelto il matrimonio, sia per chi si è incamminato sulla via della scelta verginale e celibataria: ogni essere umano è chiamato a stabilire relazioni nuziali e feconde, senza le quali, ogni vita diventa sterile. 

Prima lettura: Gen 2,18-24

Il racconto più antico della creazione – contenuto nella prima lettura di questa domenica – presenta la verità dell’essere umano nella sua rete di relazioni, a significare che sono proprio le relazioni che definiscono e rendono feconda la vita. Dopo aver stabilito un rapporto con il mondo, l’uomo si rende conto di non poter vivere esaurendosi nelle cose. Nessuna creatura è alla sua altezza, neppure gli animali, che hanno «il soffio della vita», perché la vera comunione non è nel possesso, ma nella pari dignità dell’appartenenza reciproca: nel poter stare “uno di fronte all’altro”.

Secondo la mitologia antica, il sonno profondo che Dio fa scendere sull’uomo, al momento della creazione della donna, richiama il mistero, perché è proprio questo il terreno più adatto all’opera divina e alla relazione umana. Nel silenzio del mistero divino nasce la donna. L’uomo la riconosce subito «carne della sua carne e osso delle sue ossa», «colei che gli sta di fronte» (traduzione letterale di kenegdô). Questa pari dignità è espressa dal testo in forma di paronomasia: ish (uomo) e isshah (donna): una maniera per esprimere che l’uomo incontra finalmente un “tu”, con il quale può entrare in comunione. Nella reciprocità dell’«io» e del «tu» si stabilisce l’autentica comunione, perché nel «noi» nuziale l’«io» e il «tu» non si dissolvono, ma si accolgono; nel «noi» nuziale la parola non insegue più la terribile fatica di dover convincere, di dover giustificare e giustificarsi.

In un mono-logo gli altri diventano significativi solo nel momento in cui entrano nei nostri piani e nei nostri schemi; in un dia-logo ognuno sta dinanzi all’altro non in un atteggiamento di sopraffazione o di paura, ma in un rapporto di esistenza pronta a mettersi in discussione e ad accogliere. Nella comunione dell’«io» e del «tu» la parola non vuole essere irresistibile ad ogni costo per conquistare l’altro/a e vincerlo/a o convincerlo/a; nella parola ciascuno scopre la propria profonda vulnerabilità e si affida. Nel «noi» è superata anche la paura che porta l’uomo a nascondersi: «ho avuto paura… e mi sono nascosto» (Gen 3,9).

Il movimento dell’uomo che lascia il padre e la madre per unirsi alla sua donna viene espresso nel testo con una radice verbale (dabaq be) che in ebraico indica la relazione interpersonale impregnata di amore profondo. Il Deuteronomio usa lo stesso vocabolo quando parla del servizio che si deve a Dio: «… servi il Signore tuo Dio e restagli fedele!». Ciò che unisce l’uomo e la donna, dunque, e ogni relazione degna di questo nome, è un amore «oblativo». Dio – e l’altro/a – vanno amati per quello che sono; «l’essere-per-l’altro/a» di Dio significa che il suo amore assume l’essere umano nella più assoluta gratuità, senza calcoli e atteggiamenti mercenari. 

Il Vangelo: Mc 10,2-16

Questa prospettiva dell’essere umano nuziale e fecondo illumina anche il passo evangelico centrato sulla questione del divorzio. Il testo si compone di due scene: la prima racchiude la disputa tra Gesù e i farisei, e la seconda contiene il colloquio in casa tra Gesù e i discepoli.

Il punto centrale della disputa con i farisei è nel fatto che Gesù abolisce le concessioni fatte nel tempo della “durezza del cuore” e restituisce validità alla volontà “originaria” di Dio, superando d’un colpo solo tutta la casistica rabbinica sulle circostanze che rendevano possibile il divorzio. Per comprendere veramente l’essenza della disputa, occorre discernere l’intenzione profonda di Gesù che è questa: nel definire la relazione tra l’uomo e la donna e, più in generale, nel definire la validità di un comandamento, più che agli aspetti contingenti, dovuti alle condizioni culturali e sociali – sempre mutevoli – bisogna risalire alla volontà originaria di Dio, all’archetipo.

Questo significa che, nella comprensione e nell’obbedienza alla legge di Dio, il credente è chiamato non a nascondersi dietro una casistica legalista, sempre in agguato anche nelle comunità ecclesiali, ma a scandagliare nella propria storia quale atteggiamento risponda meglio all’autentica volontà di Dio. Una certa osservanza letterale e scrupolosa, che tralascia però l’essenziale, può ridursi a un comodo alibi e va contro la Volontà di Dio. Il discernimento a cui è chiamato il credente non può restare in superficie, ma deve andare oltre la lettera, là dove alberga l’intenzione profonda della legge divina.

Ma c’è un secondo aspetto da tener presente e che risalta nella seconda scena, che si svolge in casa tra Gesù e i discepoli. Finora i discepoli non erano formalmente presenti, mentre in questa seconda scena diventano protagonisti. La loro richiesta è formulata in maniera generica e non è chiaro se, di fronte alle parole di Gesù rivolte ai farisei, vogliano esprimere un’obiezione o una preoccupazione o cerchino una spiegazione. La formulazione così generale lascia aperte diverse ipotesi, ma il minimo che si possa dire è che la loro domanda dà occasione a Gesù di ribadire quanto già affermato. Pragmaticamente, l’insegnamento di Gesù presenta ai discepoli qualcosa di più del caso singolo riguardante il divorzio. Si tratta piuttosto di “un metro di orientamento” sulla comprensione del comandamento di Dio e della situazione dell’uomo.

Gesù parla di adulterio, che si verifica sia in caso di divorzio dell’uomo sia in caso di divorzio della donna. In questo modo, Gesù afferma che, nel valutare l’uomo e le sue opere, bisogna far riferimento non a una natura astratta, ma all’essere-in-relazione, all’uomo nuziale, perché all’origine «maschio e femmina li creò». Solo perché la nuzialità, la relazione feconda è la chiave di comprensione dell’essere umano, l’uomo e la donna si macchiano di adulterio. La nuzialità è fondamentale per capire l’uomo, perché essa è anche la chiave per comprendere Dio. Dio, infatti, ha voluto legarsi all’umanità come lo sposo alla sua sposa. La storia della salvezza è, in fondo, la storia di una relazione nuziale tra Dio e l’uomo e tutta la vicenda umana va letta in questa luce.

Ovviamente, l’argomentazione posta sulla bocca di Gesù non è “esegeticamente” ineccepibile, perché nell’intenzione della Genesi la distinzione dei sessi fonda la specie umana e non l’unità della coppia. In ogni caso questo modo di argomentare di Gesù, propriamente rabbinico, riporta il discorso a un aspetto centrale che contraddistingue la liturgia della parola odierna e quella delle domeniche di questo periodo: l’Amore parla solo con ciò che dona. Finché si rimane irretiti nella casistica della legge e finché si privilegia il nostro buon nome e il commercio delle nostre buone azioni, sarà impossibile vincere la morte e il negativo della vita. Imparare ad amare significa imparare ad attraversare la morte!

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano