Il tema della Domenica
Ci sono dei beni a caro prezzo, che nessuna ricchezza umana può acquistare. La prima lettura ci parla della Sapienza come uno di questi beni, anzi come l’unico, vero bene. In efficace contrasto, il Vangelo ci presenta invece un uomo che – occupato dalle sue paure e dal suo denaro – non riesce a cogliere il valore della Sapienza evangelica, incarnata nella chiamata di Gesù a seguirlo. Perde l’occasione e, con essa, l’orizzonte di una vita nuova, non più sottoposta alle leggi del calcolo e dell’utilità, ma libera e feconda.
Prima lettura: Sap 7,7-11
La prima lettura riporta una confessione messa sulla bocca di Salomone, il re saggio e lungimirante, il quale, agli albori del suo regno, invece di chiedere ricchezza, lunga vita e vittoria sui nemici, aveva pregato il Signore con queste parole: «concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1Re 3).
Nella confessione riportata dal libro della Sapienza, il vecchio re mostra ancora la sua perspicacia, facendo l’elogio della Sapienza e mostrandone la superiorità su tutti gli altri beni. Il paragone inizia con i beni materiali: scettri, troni, ricchezza e gioielli di valore inestimabile, per passare poi ai beni della vita fisica, come salute, bellezza e, perfino, la luce degli occhi. A tutto Salomone ritiene superiore la Sapienza.
Leggendo un’attestazione così convinta, viene in mente il mondo greco, con la sua capacità di interrogarsi sul senso del mondo e delle cose, affidandosi al discernimento filosofico e alla forza dell’intelletto. Valori nobili che vanno giustamente riconosciuti, soprattutto nel mondo contemporaneo, perché come il saggio Salomone, oggi dobbiamo re-imparare l’abbecedario dei bisogni umani, sapendo distinguere tra valori eterni e cose effimere, urgenze umane vere e impulsi opportunistici, condizionati e velleitari. La sapienza odierna deve saper andare oltre la categoria dell’utile, dell’immediatamente fruibile; deve saper discernere le cose che contano.
E tuttavia, fatto questo discernimento, il credente non può fermarsi, perché è l’amore che dà senso al giudizio su eventi e cose. Il saggio che non ama diventa arrogante e l’intelligenza che non compatisce diventa gelida. I veri credenti sono quelli che traducono il Regno di Dio in partecipazione e compassione per l’uomo, pane da mangiare e speranza. È questa la Sapienza che il saggio Salomone definisce «ricchezza incalcolabile», perché porta con sé «tutti i beni della terra». Il limite ci ha accerchiato perché abbiamo cercato di sconfiggerlo non con l’amore, ma con le sole armi dell’intelligenza, e spesso – troppo spesso – con le armi del potere. Sappiamo inventare e creare, salire nei cieli e discendere negli abissi, ma il pericolo di un mondo senza amore, dominato dalla legge del più forte, rischia di sconfiggere le conquiste della sapienza umana. Dobbiamo re-imparare un’altra verità, un’«altra sapienza».
Il Vangelo: Mc 10,17-30
Il testo di Marco aiuta la ricerca dell’«altra sapienza», presentando una sequenza sul rapporto del credente con la ricchezza terrena. Il racconto si compone di tre scene, disposte in crescendo.
Nella prima abbiamo l’incontro tra Gesù e un uomo ricco. Le parole e i gesti dell’uomo mostrano la bontà dei suoi sentimenti e la sua risposta all’invito di Gesù, che gli domanda la pratica dei comandamenti, sottolinea la sua fede osservante, non superficiale: crede realmente in Dio sin da quando un ebreo è tenuto a osservare la legge. La nota tipicamente marciana di un moto d’amore di Gesù verso questo uomo ha la funzione di dare importanza a ciò che segue, e cioè alla sola cosa mancante, che Marco esprime con una serie di imperativi in progressione: «va, vendi quanto hai, dallo ai poveri… e seguimi!». L’accento è sull’ultimo imperativo: la rinuncia non è fine a se stessa, ma in vista della sola cosa che conta: credere al Vangelo e seguire Gesù. Giustamente Girolamo aveva fatto notare che non basta vendere: «molti rinunciano alle ricchezze senza seguire il Signore». Il testo evangelico non parla di un «di più» quantitativo e neppure di un’etica a due piani (come è stato spesso sottolineato nella tradizione cristiana), come se Gesù chiedesse l’osservanza dei comandamenti ai cristiani ordinari e un di più (vendere tutto…) a chi accetta i cosiddetti “consigli evangelici”. Il testo vuole sottolineare per tutti l’importanza primaria che va data a Cristo e al suo Vangelo. Il cammino che conduce alla vita si compie nell’accettazione della sapienza di Gesù. Ad essa è chiamato il ricco e, con lui, ogni lettore. Purtroppo questa prima scena si chiude con un fallimento, perché quel tale se ne andò via triste. La ragione sta nel fatto che la sapienza di Gesù richiedeva una radicalità tale, che quel ricco non possedeva. Le ricchezze occupavano la sua vita e le sue aspirazioni; non rimaneva spazio per altro.
Nella seconda scena Gesù getta lo sguardo sui discepoli (lo stesso sguardo che si era posato sul ricco). Ma qui il testo lascia trasparire un altro contesto sociale: si passa dall’ambiente palestinese a quello ellenistico, segno di una più ampia cerchia di lettori. Infatti, il termine greco chrêmata / ricchezze designa anzitutto un capitale in denaro e richiama un contesto diverso da quello agricolo della Palestina. Ai lettori ellenisti benestanti Gesù parla anzitutto della difficoltà dei ricchi ad entrare nel Regno. La difficoltà dev’essere compresa in senso “effettivo”: Gesù non presenta una questione di principio sulla possibilità di salvezza per un ricco; dice però che “di fatto” le ricchezze e la loro brama costituiscono una concreta e reale tentazione, perché occupano a tal punto il cuore umano che Dio rimane superfluo e lontano. La reazione dei discepoli riflette la paura dei lettori, tanto più che, nel Primo Testamento, la ricchezza è un segno della benedizione di Dio. Di fronte a questa paura Gesù non desiste, anzi rincara la dose con la paradossale immagine del cammello e della cruna dell’ago. Il linguaggio è paradossale e si traduce chiaramente in un’iperbole. E tuttavia, se Gesù ricorre a una tale immagine, chiamando in causa l’onnipotenza di Dio, il problema va preso sul serio.
La terza scena si apre con l’intervento di Pietro, come portavoce di tutti coloro che si sono posti alla sequela della sapienza evangelica. Il passaggio a un interlocutore non meglio identificato (chi può essere allora salvato) è significativo, perché sottolinea il carattere universale della risposta di Gesù: «non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e del Vangelo che non riceva già al presente cento volte tanto… e nel futuro la vita eterna». Con queste parole Gesù offre dei criteri importanti per l’uso saggio dei beni. A tutti viene ribadito il primato di Dio e del suo Regno, con la sottolineatura che le ricchezze vengono ad essere “di fatto” un pericolo reale a quel primato. A tutti viene richiesto un distacco “effettivo” dai beni, e non puramente un distacco stoico e “interiore”, nel senso che i beni sono per la condivisione e non per l’accumulo di pochi. I modelli di incarnare queste esigenze restano diversi e le scelte non possono essere uniformi (un padre o una madre di famiglia, una comunità monastica o un/a religioso/a… realizzano in modo diverso gli insegnamenti di Gesù), ma la sapienza biblica e la sequela di Cristo chiede a tutti di usare le cose del mondo come segno d’amore e non come segno di divisione. Il Regno di Dio richiede una prassi di condivisione e non un accaparramento selvaggio e malvagio che disprezza Dio e gli esseri umani.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano