Il tema della Domenica
L’amore di Dio e del prossimo sono i cardini della vita di fede, sia nel Primo che nel Nuovo Testamento. Il Vangelo di oggi lo ricorda, ponendo sulle labbra di Gesù due passi dell’Antico Testamento composti con mirabile maestria: il primo – tratto dal libro del Deuteronomio – parla dell’amore di Dio, il secondo – tratto dal libro del Levitico – dell’amore del prossimo. In questo modo la comunità cristiana riceve il primum da cui tutto dipende e a cui tutto fa riferimento. «Nessuno di questi due amori può essere perfetto senza l’altro», scriveva Beda il Venerabile, «perché non si può amare veramente Dio senza il prossimo, né il prossimo senza Dio». Da questo dipende la giustizia dell’uomo.
Prima lettura: Dt 6,2-6
La pagina del Deuteronomio – riportata anche dal vangelo di Marco – espone la professione di fede che l’ebraismo definisce come Shema Israel. Si tratta della professione nel Dio unico, che è a fondamento della vita di fede e dell’etica: «Il Signore è uno solo e va amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze». In effetti, questo comandamento scandisce la giornata del credente ebreo e compendia tutta la legge. La menzione del cuore, dell’anima e della forza crea un effetto inaudito, perché il cuore è la sede della vita spirituale (pensiero, volontà, sentimenti), l’anima (psiche) è la vita intesa come esistenza concreta e visibile, mentre la forza è la potenza delle pulsioni interiori e delle energie intime. Al di fuori di queste tre componenti nulla è nell’essere umano: esse esprimono l’impegno totale e definitivo.
Ma cosa significa amare Dio secondo la parola del Deuteronomio? Mi pare che il libro del Deuteronomio riassuma le esigenze dell’amore in queste quattro condizioni: ascoltare, cercare, praticare i comandamenti, ritornare.
Amare Dio significa anzitutto ascoltarlo. L’ascolto in Israele è sempre saldato alla decisione di porre la relazione con l’altro al di sopra delle preoccupazioni, dei rumori e delle distrazioni che invadono la nostra vita. Lo dice la stessa radice ebraica del verbo shama‘/ascoltare. Ascoltare significa decidersi per l’altro, ospitarlo con il suo fardello e la sua fatica. Il vero ascolto non è mai a mezz’orecchio, perché ciò equivarrebbe al disprezzo. Il vero ascolto suppone lo spogliamento da ciò che ci pre-occupa, lasciando che la parola dell’Altro possa depositarsi e germogliare.
Amare Dio significa poi cercarlo. Bisogna subito dire che nei passi biblici dove ricorre questo verbo l’aspetto conoscitivo è secondario: raramente si trova il verbo nel senso di un indagare teorico. Si tratta, invece, di cercare qualcuno per entrare in relazione con lui, a tal punto che cercare Dio finisce per costituire una vera e propria definizione di Israele, o meglio, dell’autentico Israele di Dio, nella sua più genuina identità di credente. Nel libro di Isaia si parla del popolo come di un popolo di cercatori di Dio. Perché, in fondo, coloro che si amano si cercano.
Amare Dio significa poi praticare i suoi comandamenti, obbedire alla sua Torah. Sulla legge di Dio si sono accumulate così tante macerie nella storia della chiesa che risulta spesso impossibile riconoscere l’autentico senso biblico dell’osservanza della Legge. Un midrash mette sulla bocca di Dio queste parole: «Non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi». Questo rapporto tra Legge e libertà, tra Legge e vita, va assolutamente tenuto presente, se si vuole arrivare a una giusta considerazione di cosa significhi obbedire ai comandamenti di YHWH. La legge è data perché l’uomo diventi libero e sia felice. Nel darla, la preoccupazione prima di Dio non è quella di fissare un ristabilimento dell’ordine, e tanto meno di esercitare una coercizione. Praticare la Torah significa per l’uomo entrare in una relazione che fa vivere.
E infine, amare Dio significa tornare a Lui. Ama, infatti, colui che – dopo aver cercato altri idoli e altri approdi – sa trovare la strada del ritorno. Perché l’uomo non è capace di stabilità: è mutevole e adultero. La fedeltà appartiene a Dio e non all’uomo. In questi casi, amare significa ritornare. In una bella pagina del profeta Osea, il popolo adultero ascolta la voce di chi esorta: «Venite, ritorniamo al Signore! Egli ha strappato, egli ci guarirà; egli ha percosso, egli ci fascerà» (Os 6,1). Il ritorno è la strada dell’uomo, dopo aver vagato senza meta nel labirinto della vita.
Il Vangelo: Mc 12,28b-34
Sullo stesso piano dell’amore di Dio, Gesù pone l’amore del prossimo: da questi due precetti dipendono tutta la Legge e i Profeti. L’accostamento dei due comandamenti non era estraneo al pensiero rabbinico, perché a un pagano che chiedeva di esporre tutta la Torah “su un piede solo”, Rabbi Hillel rispondeva: «Non fare al tuo prossimo ciò che per te è odioso. Questa è tutta la Torah». E tuttavia la risposta di Gesù acquista un’altra dimensione alla luce della sua morte e risurrezione, perché nella sua vita e nella sua morte, il “come te stesso” non corrisponde a una logica simmetrica, ma asimmetrica. Sarebbe un equivoco considerare il “come te stesso” alla stregua di un amore narcisistico che ha nel sé il punto di forza e il criterio di valutazione. Il «sé», da un punto di vista cristiano, ha senso solo nell’essere «di fronte». Il “come te stesso” apre una strada al di fuori di sé, esattamente quanto è avvenuto con Gesù che, nella sua morte, ha fatto dell’amore dell’Altro/altro il criterio supremo e della logica “asimmetrica” il perno della vita cristiana. La croce è il momento rivelatore della logica di Dio, perché la morte di Gesù ridefinisce l’immagine di Dio e l’immagine dell’uomo. Non solo perché mette Dio dalla parte delle vittime e non dei carnefici – secondo il monito del Talmud: «Sii fra il numero dei perseguitati e non dei persecutori: sempre e dovunque Dio è con i perseguitati…» – ma anche perché segna la fine di una certa comprensione di Dio e l’inizio di una nuova èra, in cui il prossimo – giusto o peccatore, nobile o comune, degno o indegno… – diventa oggetto di un amore gratuito e indistruttibile. Il “come te stesso” esprime un amore alieno da qualsiasi tatticismo, inclusi quelli della conversione e del legame “naturale”.
L’amore in vista di un fine – seppure nobile – o l’amore motivato da un legame di sangue sono amori simmetrici, che non esprimono affatto il “come te stesso” di Gesù. Nella croce Gesù ci dice che Dio ama l’essere umano nella sua realtà: non un uomo ideale, non un mondo ideale, ma questo impasto di grandezza e miseria, eroicità e pusillanimità… La croce, con la sua valenza asimmetrica, è la parola ultima che offre la chiave di lettura del “come te stesso”.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano