Il tema del giorno
Il mistero dell’Ascensione fu compreso nei primi secoli della chiesa in stretto rapporto con la Pasqua e con tutto il movimento di abbassamento e innalzamento che aveva caratterizzato la vita di Gesù. Le antiche omelie pasquali leggevano l’innalzamento di Gesù come «vita che esce dalla tomba, guarigione che esce dalla piaga, risurrezione che esce dalla caduta e ascensione che esce dalla discesa». La Chiesa delle origini, dunque, non lesse la dipartita di Gesù come scomparsa, ma come ascesa di Colui che era e rimane presente, anche quando non è più visibile allo sguardo umano. Ed è proprio questa presenza-assenza il motivo dominante delle letture odierne: una condizione che ha definito non solo le prime generazioni cristiane, ma è divenuta lo statuto fondamentale di ogni credente, posto tra il già della salvezza portata da Cristo e il non ancora della salvezza definitiva. Di questa dimensione strutturante dell’esistenza cristiana vorrei sottolineare tre aspetti, che emergono dalle letture odierne e che vanno letti in stretta relazione.
Prima lettura: At 1,1-11
Il primo fondamento che connota la fede cristiana (così come presentata dagli Atti degli Apostoli), è Cristo: unica ragion d’essere della Chiesa. Non esiste altro riferimento che a Lui, a ciò che egli «fece e insegnò, dall’inizio fino al giorno in cui fu assunto in cielo…». Non c’è un tempo di Gesù e un tempo della Chiesa, perché la chiesa vive in riferimento a Cristo. Questo significa che una Chiesa non vive di sé stessa e per sé stessa. Una comunità cristiana che si preoccupasse solo di sé e della sua sopravvivenza, affidandosi alle casse di risonanza e agli architetti del potere mondano, una comunità cristiana che poggiasse la sua fede solo sulla visibilità e sul mito del successo, sarebbe destinata inevitabilmente al fallimento, perché la Chiesa è di Cristo! Lo diceva già Ignazio di Antiochia: «Non abbiate Gesù Cristo sulle labbra, e il mondo nel cuore…». Lo ribadiva, alcuni decenni fa il patriarca ecumenico ortodosso della chiesa di Costantinopoli, Atenagora, il quale lanciava un ammonimento ai cristiani di tutte le confessioni: «I sedicenti cristiani non vivono la risurrezione, non vivono da risorti! Hanno perduto lo spirito del Vangelo. Hanno fatto della chiesa una macchina, della teologia una pseudo-scienza, del cristianesimo una vaga morale… Abbiamo bisogno di uomini che facciano l’esperienza della risurrezione di Cristo…». Il regno di Dio si costruisce con la potenza del Risorto e non con l’appoggio dei regni di questo mondo. Lo vogliamo o non lo vogliamo, non c’è altra via che questa.
Da questo primo e importante fondamento, appena menzionato, il libro degli Atti ne fa scaturire un secondo, bene espresso dalle parole con le quali i due uomini in bianche vesti apostrofano gli apostoli che stavano fissando il cielo: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Anche nel racconto della tomba vuota, Luca ricorda il rimprovero dei due uomini in bianche vesti alle donne accorse alla tomba: «Perché cercate il vivente tra i morti?» (Lc 24,4). Il rimprovero ha la funzione di distogliere i discepoli da una comprensione distorta dell’ascensione di Cristo al cielo e di richiamarli al compito che sta loro dinnanzi. Il tempo del già e non ancora è il tempo dell’annuncio del Regno e delle decisioni, della fatica quotidiana e del servizio. Gli uomini della risurrezione non amano il cielo a scapito della terra, perché le attese del Regno definitivo coincidono con le speranze quotidiane dell’uomo, e i gemiti dello Spirito si manifestano nei gemiti dell’uomo che ha fame e sete, è nudo, straniero, carcerato… Pensare alle cose di lassù non significa rinchiudersi nelle cittadelle ecclesiali o curiali, tra inchini accattivanti e incensi alienanti, ma diventare viandanti e pellegrini, insieme alle donne e agli uomini che gridano, piangono, faticano… Pensare alle cose di lassù significa amare la terra che ci porta, senza dimenticare la meta. La storia sacra è la storia dell’uomo, con le sue aspirazioni alla vita e alla dignità e la Pasqua è il seme messianico gettato tra le radici delle attese umane.
Il Vangelo: Mc 16,15-20
A questo secondo aspetto è strettamente unito il terzo: la dimensione universale del cammino cristiano. Ce lo ricorda la pagina conclusiva del Vangelo di Marco, riconosciuta come parola ispirata, anche se certamente posteriore al Vangelo autentico scritto da Marco (che si conclude al v. 8). Si tratta, comunque, di una pagina dalla prospettiva universale e non solo perché i discepoli sono inviati ad annunciare il Vangelo in tutto il mondo ed a ogni creatura, ma anche per i segni che accompagneranno l’annuncio. Dire universalità non significa dire qualcosa di astratto ed evanescente, perché l’universalità cristiana è di carattere antropologico e teologico. Dire universalità significa mettere il baricentro non dentro i confini sacri del tempio o della legge, ma dentro le attese autentiche dei popoli e degli uomini: là dove la promessa di Dio è tanto più carica di senso in quanto più profondi e radicali sono i bisogni. Ce lo ricorda la struttura stessa del libro degli Atti, che presenta il viaggio della Parola da Gerusalemme a Roma: dal centro della vita religiosa al centro dell’impero.
Il viaggio della Parola da Gerusalemme a Roma mostra la comprensione che la Chiesa primitiva aveva di sé stessa: essere testimone di un messaggio salvifico senza confini. La tentazione costante dei credenti è la stessa di alcuni ebrei della prima ora, biasimati da Paolo: dividere il mondo in circoncisi e incirconcisi, con la facile tentazione di considerare i primi (e, dunque, sé stessi) salvati e gli altri dannati. Nella storia della chiesa, l’appartenenza a una razza, a una cultura, a una tradizione… è stata spesso confusa con l’autentica via di salvezza. Proprio il libro degli Atti ci ricorda che Dio ha guidato la sua chiesa per strade impensate, che soltanto la nostra pigrizia mentale ha potuto sbarrare a determinate categorie di persone. Dal capitolo sesto del libro degli Atti, il cammino della Parola raggiunge i samaritani, e poi via via gli eunuchi, i centurioni romani, i pagani… senza lasciar fuori nessuno, perché la verità autentica è che «Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti» (At 10,34-36). Noi siamo avvezzi a dividere il mondo in giusti e ingiusti, pii e reprobi, intelligenti e ignoranti… La logica di Dio è una logica che non ci appartiene, perché, mentre noi separiamo e creiamo steccati, Dio dà senso a tutto ciò che esiste.
Di qui nasce il compito dei cristiani nel mondo, che è, poi, quello testimoniato dalla festa dell’ascensione. Come Cristo, con la sua ascensione al Padre, non è fuggito dal mondo e dall’uomo, ma li ha trasfigurati, così la via del credente non è la fuga o la paura del mondo, ma la sua trasformazione. Il cristiano è chiamato a scorgere i germogli pasquali che sbocciano qua e là nel cuore del creato e delle creature, perché l’ascensione nasconde il sogno di un mondo, non più sottoposto alla schiavitù della corruzione e della morte, ma al gemito di vita che esce dalle tombe. La fede nell’ascensione è la fiducia nella trasfigurante verità della Pasqua: una sfida portata nel cuore del cristianesimo. «Una cristianità che si incanta dietro memorie, e che ripete senza spasimo gesti e parole divine, e per cui l’alleluia è solo un rito e non la trasfigurante irradiazione della fede e della gioia della vita che vince il male e la morte dell’uomo, come può comunicare i segni della Pasqua?» (Mazzolari). La Pasqua e l’Ascensione del Risorto è la chiamata a liberare l’annuncio evangelico dalle strettoie dove spesso lo abbiamo ingabbiato.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano