Don Massimo Grilli: Cinquanta anni di sacerdozio

16 settembre 2022 – Palestrina, Basilica Cattedrale di Sant’Agapito martire in Palestrina

Sono felice di celebrare oggi questa liturgia della Parola insieme al nostro Vescovo Mauro, ai sacerdoti amici che sono potuti intervenire e a voi tutti, che in tempi diversi, ma importanti, avete condiviso con me il cammino e mi avete aiutato a sperare. Domani celebrerò l’eucaristia nel paese dove sono piantate le mie radici, ma oggi ho voluto fortemente celebrare la Parola di Dio, perché questa Parola è stata la passione della mia vita: del mio studio prima e del mio annuncio dopo. E ho desiderato vivere questo momento non con gli usuali discorsi di ricorrenza che si tengono in queste circostanze, ma con una riflessione biblica sul sacerdozio. La lettera agli Ebrei e il Vangelo di Giovanni mi sono parsi due scritti fondamentali per comprendere la nostra situazione oggi: quella di noi sacerdoti e quella di tutti voi, amici e compagni di viaggio, che condividete con noi il cammino. La lettera agli Ebrei, infatti, è una riflessione profonda sul sacerdozio di Cristo e riporta il messaggio che un grande predicatore rivolge a dei cristiani disorientati e stanchi, che vivevano in tempi difficili.

Permettetemi di iniziare proprio da qui. Se siamo sinceri e non voltiamo le spalle alla realtà, anche noi oggi, in modo analogo ai destinatari della lettera agli Ebrei, ci troviamo disorientati e manchiamo di fiducia e gran parte di questo disorientamento deriva dalla situazione che viviamo come sacerdoti e come chiesa di Cristo in mezzo al mondo. Per questo, non è semplice parlare del sacerdozio e del sacerdote oggi. Sarebbe stato più conveniente parlarne il 16 settembre del 1972, quando fui ordinato sacerdote. Gli anni settanta / ottanta erano anni molto diversi da quelli che viviamo noi. Erano anni segnati da forti passioni e tormentati a tanti livelli, eppure traboccanti speranza: speranza nel cambiamento delle strutture sociali ed ecclesiali, speranza nel futuro, speranza nell’adempimento delle promesse…. Nella chiesa, si era appena concluso il concilio Vaticano II, iniziato con Giovanni XXIII dieci anni prima. Il concilio aveva offerto nuovi impulsi a una comunità ecclesiale in cerca della sua strada, soprattutto nel dialogo con il mondo. Il concilio aveva aperto prospettive nuove: sembrava fiorire una primavera promettente con una chiesa rinnovata.  Anche il sacerdote e il sacerdozio godevano di stima e lo diceva il numero dei seminaristi, l’entusiasmo per forme di vita pastorale nascenti, la riscoperta della parola di Dio e della Bibbia dopo secoli di oscuramento…

E tuttavia, proprio in quegli anni e negli anni a seguire, si avvertirono i primi segnali di ciò che sarebbe accaduto dopo, degli sconvolgimenti dei decenni a venire e degli eventi che ci hanno introdotto nel tempo in cui oggi ci troviamo a vivere. Non è il caso e non è il luogo per entrare nei dettagli, ma chi di noi ha vissuto questi ultimi 50 anni della storia ha assistito al crollo dei principi ideologici e religiosi che avevano segnato le epoche precedenti, ha assistito allo sfilacciamento delle certezze che si credevano immutabili, al venir meno della fiducia nelle istituzioni, compresa la chiesa. Nella conclusione di un romanzo molto famoso, tradotto in più di 50 lingue, c’è una metafora che incarna bene quanto è avvenuto in questi ultimi decenni: un monastero – il monastero è un simbolo forte della verità ultima metastorica e metafisica, della solidità culturale e teologica dell’Europa cristiana – un monastero viene inghiottito dal fuoco, si sgretola e diventa un mucchio di macerie. La realtà che ci troviamo davanti oggi è stata definita con un’espressione che ha riscosso fortuna negli ambienti culturali e popolari: una società liquida, perché i sistemi di pensiero che imponevano una visione definitiva della realtà o saperi certi e incontrastati, insieme alle istituzioni si sono a poco poco sgretolati o sono entrati in forte crisi, per far posto a un mondo frammentato e fluttuante, composto di tante piccole unità e storie poco stabili: liquide, appunto.

Il sacerdozio e i sacerdoti non sono stati ovviamente risparmiati da questa perturbazione. Il sacerdozio e i sacerdoti, che fino a pochi decenni fa erano condizioni di vita stimate e ambìte, si trovano oggi in uno stato di insicurezza e precarietà, non solo a motivo della scarsità delle vocazioni e degli scandali che li attraversano, ma soprattutto a motivo di una certa stanchezza e carenza di orizzonti, che non derivano da una situazione particolare, ma più in generale, dalla complessità di un mondo che ci sfugge. Più si va avanti e più si ha la percezione che i conti non tornano, che l’ammontare degli impegni e degli sforzi non trova un giusto riscontro nei risultati e così si abbandonano i grandi ideali e si trasmigra facilmente nella routine, nel fare meccanicamente il proprio dovere e le cose di ogni giorno. Me lo confessava qualche giorno fa un sacerdote serio e responsabile, di mezza età: «il problema, mi diceva, è che sto diventando stanco e scettico, riducendomi a fare meccanicamente ciò che devo, anche se si tratta di sacramenti e funzioni, che richiederebbero ben altro approccio … Sono trasmigrato in una routine quotidiana che non mi lascia tempo per respirare, per pregare e per pensare… Mi costringo a convivere con un ottimismo forzato e spesso e cerco di patteggiare con me stesso e con i miei principi, per avere un po’ di bonaccia…».

Certo non tutti si trovano nella condizione di questo sacerdote: ce ne sono altri che vivono con coraggio il remare duro e silenzioso, che rimangono forti in mezzo alle intemperie e alle tempeste, che non si abbandonano allo scoraggiamento… e tuttavia non possiamo negare che quel senso di smarrimento che attraversava le comunità a cui si rivolgeva l’autore della lettera agli Ebrei, quel disorientamento appartiene anche a noi, oggi; ai pastori responsabili come alle comunità loro affidate, ai giovani come agli anziani… Se siamo onesti, se siamo seri, percepiamo tutti la fatica di trovare una strada.

Eppure, anche oggi, proprio oggi – in questa fatica e in questo senso di stanchezza che ci pervade – la parola di Dio ci viene incontro e ci offre degli orientamenti. Ci dà una certezza: che la speranza è più forte dei fatti, non li aggira, non li sfugge, ma li attraversa, li contesta. Quali sono, allora, questi semi di speranza che la parola di Dio semina oggi nel nostro cammino? Sul fondamento delle letture che abbiamo ascoltato ne vorrei presentare tre, che non esauriscono di certo la ricchezza che ci è data dalla Parola, ma possono aiutarci a non disperderci e a non perderci.

1. Nei primi quattro versetti del capitolo cinque, dando una definizione del sacerdozio, l’autore della lettera dice che il sacerdote è un uomo in grado di sentire compassione per coloro che vivono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza (5,1-2).  Ecco il primo elemento che ci permette di aprire un discorso serio, senza infingimenti e soluzioni a buon mercato. Bisogna partire da qui, e cioè da un aspetto che ci accomuna tutti, sacerdoti e popolo di Dio, uomini e donne, giovani e vecchi, un fondamento che ci rende veramente tutti fratelli e sorelle e che l’autore della lettera chiama: debolezza, limite. Siamo tutti rivestiti di debolezza. L’autore della lettera ha probabilmente sullo sfondo i sacerdoti del tempio, molti dei quali consideravano il sacerdozio come un privilegio, che li separava dagli altri uomini.  L’insistenza era sulla separazione. L’autore della lettera agli Ebrei dice invece: il punto di partenza è un altro: la condivisione del limite; la consapevolezza che la promessa di Dio deve aprirsi la strada in mezzo alle nostre infedeltà, alla nostra cecità e talvolta ai cimiteri costruiti con le nostre mani. Dobbiamo guardare questo scandalo come adulti maturi: non dobbiamo voltarci e non dobbiamo fuggire davanti al male che è in noi e che è in mezzo a noi. La coscienza di condividere con ogni uomo la debolezza che appartiene a tutti, nessuno escluso, fa di noi uomini maturi, autentici, uomini di Cristo!

Ma questa consapevolezza della nostra verità ha anche un altro effetto. La lettera agli Ebrei dice che essa ci rende capaci di avere compassione per coloro che sbagliano e traviano (5,2). Il vero mediatore, il vero pastore, è colui che si fa carico dell’essere umano, senza giudicarlo, senza disprezzarlo; al contrario, caricandoselo sulle spalle per portarlo davanti a Dio… Nella liturgia di domenica scorsa (XXIV del TO) abbiamo ascoltato un magnifico testo tratto dal libro dell’Esodo. Dopo la costruzione del vitello d’oro nel deserto, Dio si rivolge a Mosè rivelandogli la distruzione di quel popolo malvagio e prospettando invece per lui un avvenire radioso. Un progetto affascinante per gli opportunisti e i mercenari, ma non per Mosè, che rivolge a Dio una delle preghiere più belle della letteratura biblica, segnata da un perché?… e da un ricordati! Perché? esprime il sentimento di appartenenza: Mosè non si sente migliore del suo popolo, a cui appartiene, non spicca il volo quando la situazione diventa difficile e non si comporta come un mercenario che cerca di trarre tutti i vantaggi possibili dalla posizione che occupa. Anzi, si mette dalla parte del popolo peccatore e ricorda a Dio la sua promessa, il suo impegno: ricordati!  Mosè chiede a Dio di ricordare la Promessa fatta. È Dio stesso, proprio lui, che ha voluto mettersi in gioco stringendo un patto di fedeltà con un popolo peccatore! Ecco il vero compito di un mediatore: una solidarietà che va oltre ogni idea di vantaggio personale e anche oltre ogni idea di giustizia. Forse bisogna ripartire proprio da qui, da questa affermazione base dell’autore di Ebrei: chiedere a Dio di farci diventare uomini in grado di sentire compassione per coloro che vivono nell’ignoranza e nell’errore, perché anche noi siamo rivestiti di debolezza.

2. Arriviamo così al secondo elemento che troviamo ancora nel nostro testo della lettera agli Ebrei e che può orientare la nostra vita: la liturgia. L’azione liturgica è fondamentale nel sacerdozio, perché unisce la terra al cielo: mette in relazione gli uomini segnati dalla debolezza e dal peccato con Dio che è per sempre e senza peccato.

Presentando il sacerdozio di Gesù e la sua liturgia, l’autore della Lettera agli Ebrei tuttavia afferma qualcosa di profondamento innovativo rispetto ai riti del tempio, spesso esteriori e senza possibilità di rinnovare il cuore dell’uomo. L’autore della lettera afferma che la liturgia vera si celebra con la vita, la liturgia vera è quella della vita. Ecco le sue parole: nei giorni della sua vita terrena Gesù offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime… (Ebr 5,7-8). L’autore aveva criticato prima il culto esteriore del tempio, che con tutte le sue funzioni e i suoi rituali, non aveva la forza di raggiungere la comunione con Dio. È la vita, la liturgia dell’esistenza, fatta di grida e lacrime l’unica in grado di ristabilire una vera comunione con Dio. Notate come l’autore non parli qui solo del momento del Getsemani, ma della vita terrena di Gesù, intrisa di grida e lacrime. Dobbiamo confessarcelo: spesso le nostre liturgie si svolgono ai margini della vita: non vanno alla radice, non toccano il cuore. Spesso sono rituali che ripetono vecchie cantilene consolatorie senza la capacità di coinvolgere la storia dell’uomo, con i suoi fallimenti, le sue angustie e le sue speranze. Le nostre liturgie sono spesso eventi abitudinari che dispensano doni preziosi a buon mercato, per gente appagata che vuole solo un sistema più o meno garantito dal sacro. Dovremmo imparare a celebrare la liturgia fuori dell’accampamento… «Usciamo dall’accampamento…», esorta ancora l’autore della lettera agli Ebrei alla sua comunità (Ebr 13,12-13). Fuori dell’accampamento, fuori delle mura della città, Gesù è stato crocifisso ed è morto. Uscire dall’accampamento significa incontrare lui e tutti quelli che, come lui, sono «fuori»: i crocifissi, gli scartati, i senza casa, i senza terra per i quali la speranza ha un contenuto elementare che si chiama pane da mangiare, acqua da bere…

Una delle voci profetiche più potenti e che mi ha sempre affascinato è quella di Geremia. Geremia era un sacerdote, apparteneva a una famiglia sacerdotale. Ebbene, mentre tutti – sacerdoti, re e profeti di corte del suo tempo – negavano che il tempio con il suo apparato liturgico sarebbe stato distrutto e Gerusalemme sarebbe stata risparmiata dai babilonesi, Geremia da solo continuò per tutta la vita a ripetere tenacemente che la città con il tempio sarebbero stati distrutti e Israele sarebbe stato deportato perché questo popolo onorava Dio con le labbra, ma nei fatti coltivava iniquità…

E tuttavia, proprio lui, proprio Geremia che denunciava l’ipocrisia dei sacerdoti di corte, dei re e dei suoi vassalli, l’ipocrisia di un popolo che seguiva i suoi capi senza interrogarsi seriamente … proprio Geremia, con gli assedianti sotto le mura di Gerusalemme, andò a comprare un campo… per significare che le nostre storie finiscono, ma non finisce la storia di Dio con il suo popolo. La storia di Dio con il suo popolo avrebbe avuto un seguito. Arrivo così alla conclusione con il terzo e ultimo aspetto della riflessione biblica sul sacerdozio e su tutti noi.

3. Una riflessione provocata questa volta dal Vangelo di Giovanni. Gesù che lava i piedi ai discepoli non è solo, né principalmente un modello di umiltà o di abnegazione. Molto di più: è un modello di come dobbiamo vivere e morire noi tutti, sacerdoti e credenti.

Nel nostro cammino ci troviamo spesso davanti a scelte importanti. A fondamento di tutte, però, sta sempre un’alternativa radicale che Agostino esprimeva in questo modo: “l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé”. Oggi si assiste nella società e nella chiesa a una ipertrofia dell’ego, che mina ogni tipo di rapporti: a livello familiare, sociale, ecclesiale… Gesù ha scelto la strada opposta all’ego ipertrofico: ha scelto di far morire l’ego per dare la vita… morire per amore. Che non sia questa la strada maestra? L’etica dominante è dalla parte del successo personale e spesso la chiesa, i sacerdoti e le comunità misurano la riuscita dal successo delle proprie opere. Nella visuale cristiana, non è il successo il criterio per valutare la riuscita del sacerdote o della comunità credente. La croce in Giovanni mostra l’altra faccia delle cose: dice che la vittoria non si erge sul piedistallo del nostro successo, ma sull’oblazione. La croce mette in crisi la visione della riuscita come garanzia della verità cristiana. Importante non è che il nostro servizio abbia successo, ma che noi rimaniamo fedeli. Ecco il compito a cui saremo sempre più chiamati: a misurare la nostra riuscita non sulla base delle masse di followers che ci seguiranno (anche perché non ci saranno più masse che ci seguiranno), ma sulla base dei chicchi di amore che avremo seminato lungo il cammino, sulla base dei germogli che avremo fatto crescere in terra arida, sulla base delle lacrime che avremo asciugato e delle vite che avremo salvato… Capisco che questo discorso non appartiene alla ragionevolezza. Ma è la nostra fede a non essere ragionevole, perché “ragionevole è la religione, corazzata con le armi della corazza dell’io… mentre l’amore comincia là dove finiscono le corazze dell’io. Quando l’altro mi interessa più della mia sopravvivenza, di qualunque pretesa di giustizia, di qualunque garanzia, effimera o eterna… Quando sono pronto persino ad accettare la condanna eterna per amore di colui che amo, di quelli che amo… (Yannaras). Questo è il segno dell’amore divino e, lasciatemelo dire, è anche il segno della riuscita di una vita. Credere in Dio non è avere una onnipotenza a disposizione per i nostri bisogni. Credere in Dio significa vivere la nostra vita in modo tale che la nostra morte non sia il rantolo di un morente, ma il grido di una partoriente.