Viviamo questo giorno illuminati dal Vangelo di Matteo dal quale riceviamo gli atteggiamenti per vivere nella fede l’evento dell’incontro dei Magi. Anche questa è una festa che nel tempo è stata caricata di significati e di tradizioni belle e significative, che non devono attenuare o soffocare il senso della fede e del coinvolgimento personale e permettere che questo giorno lasci in noi segni di bene. “Entriamo” allora nel brano e “abitiamo” l’evento per cogliere e accogliere i doni di Dio. Nel brano poniamo l’attenzione al titolo utilizzato per Gesù:“Re dei giudei”, un titolo che ritroveremo anche al momento della morte. Lo dicono i magi e lo ripetono gli scribi ed Erode; alla morte lo fa scrivere Pilato su un cartello (Mc 15,26), lo usano i soldati per schernire Gesù (Mc 15,18; Mt 27,29; Gv 19,3), lo leggono tutti i presenti all’esecuzione della crocifissione (Gv 19,20). L’evento della nascita è in relazione essenziale con la morte di Gesù. In tutti questi eventi vi è la stessa rivelazione: l’umanità è una nella ricerca di Dio e nel ripudio di Dio. La scena evangelica di oggi è caratterizzata dalla ricerca da parte dei Magi, i lontani giunti dall’oriente, che non appagati dalla loro sapienza umana, dal loro prestigio sociale, dalla loro condizione di privilegio, lasciano aperto lo spazio del desiderio e della ricerca e si pongono in cammino, che è l’atteggiamento che esprime la vita e anche la fede. Il cammino è caratterizzato e motivato dalla ricerca, dove ogni sosta non è la meta, ma solo l’inizio di un nuovo tratto di cammino, dove occorre rinunciare alla stabilità e accogliere la precarietà; il cammino, che non fa accontentare di ciò che si ha e di ciò che si è, ma accende il desiderio di ciò che ancora può e deve accadere. E i Magi vivono di questa tensione del cuore che anima quel viaggio e così, “lontani”, entrano e contemplano la rivelazione. È un momento particolare poiché celebriamo la manifestazione dell’identità di Gesù alle genti, a quelli che non erano ebrei, figli di Israele: Gesù è nato “Re dei giudei”, ma il dono è per tutti e tutti possono accoglierlo. Il Figlio di Dio nasce bambino in una famiglia formata da un artigiano, Giuseppe, e dalla sua giovane moglie, Maria, in una stalla, riparo per il gregge nella campagna di Betlemme: tutto è semplice, ordinario e fuori dalle convenzioni sociali, culturali e religiose, in un contesto certamente non prestigioso. Eppure questi uomini da lontano, dall’oriente, o meglio dalla loro sapienza orientata, nella loro ricerca sono portati a vedere in questa semplice nascita il compimento del loro cercare, la pienezza della loro sapienza. Tutti gli umani, di ogni tempo e cultura, hanno in comune soprattutto la ricerca del bene. In ogni essere umano c’è un anelito al bene, alla vita piena, alla pace, e questo fuoco che abita nel cuore, li spinge a cercare, a mettersi in cammino, a dichiarare per loro insufficiente la terra che abitano, la storia che vivono, l’orizzonte consueto che ammirano: sono abitati dalla santa inquietudine e si pongono in cammino. In quel lungo pellegrinaggio, soprattutto della mente e del cuore, i magi hanno guardato alle stelle, alla sabbia del deserto, alle bestie che cavalcavano, al bagaglio che trasportavano con sé, per vivere e per fare doni. Per chi scruta l’orizzonte sempre sorge una stella, sempre c’è un oriente, un alzarsi, che invita al cammino. E così è avvenuto per i magi che dall’oriente giungono a Gerusalemme, la città santa (Sal 48,3;Ez 5,5; 38,12). Essi chiedono: “Dov’è il Re dei giudei che è nato?”, proprio ai giudei che non si erano accorti della nascita del loro Re: non se n’era accorto il re che regnava in quel momento, Erode, non se n’erano accorti i sacerdoti e neppure gli esperti delle sante Scritture, gli scribi. Ecco lo scandalo: chi è deputato a conoscere non riesce a cogliere la venuta del Salvatore, perché chiuso nelle proprie strutture religiose, pieno più della religiosità che della fede vera, incapace di lasciarsi condurre “fuori”. E questo “fuori” non è solo un’accezione di luogo, ma di senso, di modo: Gesù nasce fuori da ogni previsione umana e anche religiosa e solo chi si lascia condurre “fuori” dalle proprie previsioni umane e anche religiose riesce ad incontrarlo. Al contrario chi è capace di interpretare puntualmente le Scritture in riferimento al Re dei giudei ed ha il cuore libero, lo annuncia con chiarezza e certezza, seppure in una situazione di radicale accecamento. È così, e ancora oggi avviene così: si possono conoscere le parole di Dio contenute nelle Scritture, si possono citare e spiegare con competenza, si possono addirittura insegnare agli altri, eppure, nel contempo, restare in una situazione di totale cecità o sordità, manifestazioni della sclerocardia del cuore. I sapienti, obbedienti alle Scritture dei giudei, anzi ri-orientati dalle Scritture, riescono a vedere la stella, che li conduce fino al bambino Re Messia, a Betlemme, dove trovano ciò che cercavano, ma che certamente non si aspettavano così: non una reggia, non una corte regale in festa, non lo sfarzo degno della nascita di un principe, ma semplicemente un bambino e sua madre. Essi comprendono che è nell’ordinario che possono incontrare lo straordinario e contemplano non quello che avevano tanto atteso e cercato, ma altro. E come convertiti, mutati nella loro mente e nel loro cuore, riconoscono la regalità nell’anti-regalità, la regalità potente e universale nella debolezza umana, in un infante incapace di parlare e di essere eloquente con la parola. E capiscono, giungono alla fede, pur non avendo né la rivelazione né le sante Scritture; e non a caso Matteo annota che fanno ritorno al loro paese attraverso un altro cammino, cioè un altro modo di pensare e di vivere. Così avviene la rivelazione, per i giudei e per le genti: solo guardando alla debolezza di Gesù, al suo essere piccolo, si può comprendere la sua vera regalità, la sua vera identità, non plasmata in base alle immagini dei re e dei potenti di questo mondo. Ed è una sfida di fede che comincia a Betlemme, continua a Nazaret e si snoda per le vie che Gesù ha percorso, fino al Calvario, dove lo si contempla “re dei Giudei” crocifisso (Lc 23,48). Il vero dramma della fede non è credere in Dio, ma accogliere la modalità con la quale Dio si manifesta e compie la salvezza. Quei magi, convertiti alla vista del bambino in quella povera famiglia, in quella greppia, adorano, si prostrano e gli offrono in dono oro, incenso e mirra, prodotti preziosi dell’oriente, elaborati dalla cultura delle genti. Ciò che Gesù risorto potrà dire ai discepoli, “Andate e fate discepole tutte le genti” (Mt 28,19), ha qui la sua primizia. Le genti divengono discepole quando cercano con sincerità, si aprono con audacia e si mettono in cammino senza indugio. Quanti uomini e quante donne, come questi magi, cercano il bene, si sentono viandanti, in cammino, si esercitano a riconoscere la salvezza come umanizzazione e lavorano perché l’umano sia sempre più umano. Lo sappiano o meno, sono persone alle quali ogni bambino che nasce, ogni umano che viene al mondo appare con la dignità di un re; appare come un fratello o una sorella che attende da noi il nostro oro (ciò che abbiamo), il nostro incenso (il profumo sprigionato dalla nostra presenza), la nostra mirra (ciò che sappiamo sacrificare di noi stessi, spendendo la vita per l’altro). L’Epifania è manifestazione della vera regalità a tutti, cristiani e non cristiani, a coloro che aderiscono pienamente alla loro umanità fatta di desideri alti e buoni. E già siamo chiamati ad incamminarci verso la Pasqua, quando il Re dei giudei farà la fine di chiunque osa pensare e mettere in pratica una regalità come servizio dell’altro e non come potere violento. Ma l’ultima parola spetta a Dio, al Dio di Gesù!
Don Gianluca Zelli,
direttore ufficio catechistico diocesi di Tivoli