Parlare di corresponsabilità sta diventando di moda specie nell’ecclesialese contemporaneo. I fanatici della Parola di Dio possono dire che non c’è nel Vangelo questa parola; il politicamente corretto può accoglierla nel senso progressista della dissoluzione dell’autorità nel “tutti responsabili nessuno responsabile”; il buono scriba invece può comprenderla alla luce delle dinamiche del corpo mistico di Cristo, dove ogni membro compie la propria funzione senza invidiare il posto degli altri, ma sapendo che siamo chiamati ad essere buoni amministratori della multiforme grazia di Dio (1Pt 4,10).
Donata a tutti indistintamente nel Battesimo la grazia assume realizzazioni diverse in seno alla Chiesa, dove il dono iniziale germoglia rendendo comunità la massa altrimenti informe dei credenti.
Il Vescovo Mauro nel proporre la sua riflessione ai presbiteri di Tivoli e di Palestrina – posta come base la comune dignità battesimale – ha esortato i sacerdoti ad armonizzare i credenti attraverso la Parola di Dio spiegata e vissuta; la liturgia incarnata nei sacramenti e nell’autentica spiritualità; e la carità praticata nelle concrete necessità. Additando il Vaticano II (LG 9; GS 32; UR 2) ci ha ricordato che Dio vuole salvarci come popolo. Siamo popolo non per appartenenza geografica, ma quando ci scopriamo comunità a immagine della Trinità.
La comunità cristiana è allora il luogo che forma l’uomo: non l’uomo carnale incapace di fare fraternità, bensì l’uomo nuovo libero in Cristo che sa riconoscere nei pastori la presenza di Cristo e in ognuno scopre i carismi particolari che con-corrono alla ricchezza e bellezza della Chiesa. E se la scopriamo sporca la nostra comunità? Non va certo lasciata a se stessa. Devo sentirla mia la Chiesa dove sono posto: non “mia” per spadroneggiare, ma “mia” per renderla bella. Riconoscere il proprio posto aiuta gli altri a trovare spazio per il proprio posto e a rendere corale la risposta di ogni singolo.
Fabrizio Micocci,
delegato episcopale per la vita consacrata