Essendo figlia di San Benedetto parlo della vita claustrale dal punto di vista benedettino. Sappiamo che la Regola è cristocentrica, quindi prende le mosse, si sviluppa e si chiude sulla figura di Cristo. Non solo lo prende come modello di vita, ma esorta ad indirizzare l’attenzione, le forze e lo scopo di tutta la vita a vivere una piena relazione con Lui,in primis attraverso le sorelle di comunità, ma anche attraverso gli avvenimenti,il lavoro e persino gli oggetti di uso quotidiano.
È molto importante comprendere che nessuna imitazione di Cristo potrà essere concreta e verace senza un reale e profondo rapporto con Lui. È questo contatto quotidiano che insegna alla religiosa a vivere nell’Amore che, per quanto poetico e romantico possa sembrare, è un esercizio che per la maggior parte delle volte costa sudore e lacrime. Basti pensare all’impegno che richiede esercitare il perdono. Eppure dominare le proprie passioni a favore della carità diviene fondamentale nella misura in cui vogliamo essere credibili agli occhi delle sorelle e a quelli del mondo perché, come dice San Giovanni nelle sue lettere: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv.4,20b). È molto facile infatti convincersi di amare Dio perché si fanno ricche devozioni o lunghe preghiere senza però poi scendere alla concretezza, a quella durezza dell’Amore che può costare fino al sangue perché ci fa mettere da parte noi stessi e il nostro piacere per il bene dell’altro.
Lo sappiamo bene perché Gesù ce l’ha insegnato dalla cattedra della croce, che l’Amore è tanto più grande e vero quanto meno è istintivo e spontaneo.Tutti facciamo esperienza di resistenze ed antipatie, è proprio quello il campo fertile nel quale Dio vuole che lavoriamo, per questo motivo chiama alcuni di noi alla vita claustrale. Egli desidera che la monaca si eserciti a vivere a stretto contattocon donne chiamate allo stesso compito, nell’accoglienza reciproca che nasce dalla carità. Non si deve però immaginare il monastero come una sorta di versione religiosa della casa del “Grande Fratello” dove poi alla fine viene decretato un vincitore a scapito di altri che sono stati eliminati! Nella “casa” di San Benedetto siamo tutti vincitori, anzi quello che il Santo stesso si augura è che tutti insieme riceviamo il dono della vita eterna (cfr. RB.cap.72,12).
È di fondamentale importanza allora comprendere il valore del perdono, senza il quale qualsiasi tipo di vita comune risulta impossibile da realizzare Solo nel perdono donato e accolto si possono superare divergenze e persino “antipatie” che, umanamente parlando, possono sorgere anche nelle migliori comunità.
Ricordiamo, a riguardo, lo scambio di Pietro con Gesù (cfr. Mt. 18,21-35). L’apostolo si era sentito molto generoso nel dichiararsi disposto a concedere il perdono al suo prossimo fino a sette volte, forse sotto sotto si aspettava un complimento, una lode dal Signore per tanta larghezza d’animo, invece è stato spronato a non accontentarsi del molto ma di raggiungere il massimo: settanta volte sette, sempre! Noi siamo abituati a fare conti e calcoli, a porre condizioni: “se mi chiede scusa”; “se dimostra pentimento”. Certo tutto questo può essere importante soprattutto per chi il perdono lo riceve, perché significa che si rende conto di aver sbagliato. Ma per chi si sente ferito, condizione imprescindibile è la disposizione del cuore a cercare di capire e scusare.
Sappiamo certo che esistono ferite che non possono essere cancellate con un colpo di spugna, fonte di sofferenze e danni incalcolabili, ma nel nostro piccolo, in ciò che affrontiamo ogni giorno, dobbiamo allenarci a vedere il perdono come lo vede Dio: un regalo che facciamo al prossimo, Lui fa questo con noi anche quando non siamo così disposti ad ammettere che abbiamo sbagliato. La gioia che reca il donare il perdono deve diventare la nostra stessa gioia, e se il nostro prossimo in quel momento è così chiuso in sé stesso da non apprezzare la nostra offerta, restiamo in pace.
Ricordiamo sempre che amare, quindi anche perdonare, è una scelta che richiede fortezza e virilità, al contrario di quanto ci fa credere il mondo che reputa deboli e pusillanimi le persone misericordiose e longanimi. In fine teniamo a mente il severo ammonimento di Giovanni che nella sua prima lettera esorta:
«Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1 Gv.3,19).
Maria Benedetta OSB
Monastero di San Giovanni Battista in Subiaco