II Domenica Avvento /B

1) Un messaggio di consolazione. Il libro di Isaia non è di un unico autore. Con il brano proposto dalla liturgia odierna ha inizio la seconda parte (capitoli 40-55), attribuita a un Secondo Isaia, vissuto all’epoca dell’esilio di Babilonia (587-538 a.C.). È un profeta che rivela delicatezza e sensibilità straordinarie. In mezzo a un popolo deluso, dalle spalle doloranti, che conosce l’amarezza della fuga e che interpreta la propria storia come una punizione, egli esce dagli stereotipi accusatori e fa prevalere i toni della salvezza.

Il doppio imperativo dell’oracolo iniziale indica un movimento crescente, l’avvio di un processo inarrestabile, che dovrebbe correre di voce in voce: «Consolate, consolate il mio popolo». È Dio stesso ad assumersi l’impegno: “Io ti consolerò”. Il messaggio attraversa il tempo e arriva dritto al cuore, perché non esiste età o condizione in cui non si avverte il bisogno di un amore che sa tradursi nei toni del conforto, dell’incoraggiamento, del riscatto.

L’anonimo profeta dà respiro alla speranza e spiega il motivo della sua fiducia: «Ecco, il Signore Dio viene». Lo stupore per l’avvento divino lo porta a guardare lontano, a intravvedere una luce che illumina la via del ritorno. Il brano dice pure “come” Dio viene, suggerendo una descrizione distante dalle immagini del giustiziere spesso circolanti: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 

2) I tempi di Dio. La seconda lettura, tratta dalla lettera di Pietro, spinge a considerare il secondo avvento di Cristo, quello della parusia, coincidente con la fine del mondo. Fin dagli inizi l’idea ha scatenato l’immaginazione, cercando di precisare il come e il quando ciò avverrà. La prima generazione cristiana pensava che l’incontro fosse imminente, ma la lettera invita a non fare calcoli, perché il tempo di Dio è diverso da quello degli uomini. Dinanzi a lui non c’è differenza tra mille anni e un giorno solo.

Si tratta piuttosto di cogliere il senso del tempo, in modo da viverlo pienamente. L’autore della lettera lo presenta come il tempo della grazia. Il ritardo di Dio indica la sua magnanimità. Egli, infatti, «non vuole che alcuno si perda» e intende offrire a tutti la possibilità di convertirsi. Più che mettersi a conteggiare gli anni, occorre vivere in modo da essere pronti e cioè «nella santità della condotta».

Il ritorno di Cristo è certo, e dunque è oggetto della nostra fede, la descrizione dell’avvenimento è fatta invece con le categorie circolanti nelle convinzioni popolari. Ciò che si deve cogliere è l’intuizione di fondo, che è di insegnare a vivere l’attesa con l’animo di chi aspetta «cieli nuovi e una terra nuova, nei quali abita la giustizia», ma che per questo è stimolato a collaborare per la realizzazione delle promesse.

 

3) La voce del deserto. In armonia con la concezione dell’avvento come tempo dell’attesa, il Vangelo ci propone un testimone d’eccezione: Giovanni Battista. È difficile rimanere indifferenti di fronte a questo personaggio dal fascino seducente, per la coerenza di una vita che lo porterà a essere vittima di uno dei più bassi giochi di potere. Vive da solitario, si veste di peli di cammello, si ciba di locuste e miele selvatico, e mette la sua voce al servizio di Dio.

Non si proclama messaggio ma messaggero, che annuncia la venuta di un Altro. Come chi vede la luce oltre la nebbia, riesce a scorgere il Messia in mezzo alla folla radunata intorno al fiume della speranza, il Giordano, e lo proclama “il più forte”, confessando umilmente di non sentirsi neanche degno di sciogliere i legacci dei suoi sandali. Giovanni è la “voce che grida nel deserto” e che ha anche il coraggio di dire cose impopolari: ristabilite il diritto, raddrizzate i cuori, scacciate la superbia!

Isaia e Giovanni sono collegati dal filo della memoria e hanno per scenario un medesimo luogo: il deserto. È il luogo del pellegrinaggio, in cui il popolo ha fatto esperienza della misericordia di Dio. Nel deserto il silenzio si era fatto eco di una voce che proclamava la liberazione, e la notte si è trasformata in giorno. Le parole di Isaia e del Battista sono quelle che dovremmo sempre sentire sulla bocca della Chiesa, chiamata ad annunciare la Parola e non se stessa, ad aiutarci a discernerla, in mezzo a tante parole vuote e assordanti.

«Restituiscimi la mia Parola, le dirà il Giudice all’ultimo giorno. L’abbiamo custodita, noi, la Parola? E se l’abbiamo custodita intatta, non l’abbiamo messa sotto il moggio?» (Georges Bernanos).

Monsignor Giovanni Tangorra,
Pontificia Università Lateranense