III Domenica Avvento /B

La terza domenica di Avvento è la domenica della Gioia: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Antifona d’ingresso).

I brani scelti sprizzano di gioia in ogni versetto: la gioia per l’unzione profetica nell’anno giubilare della grazia; la gioia delle nozze con lo Sposo-Dio che rinnova l’alleanza d’amore con la Sposa-Israele che viene rivestita delle “vesti della salvezza”, avvolta con “il mantello della giustizia” e “si adorna di gioielli” (I lettura); l’esultanza dell’anima che con Maria magnifica il Signore perché si è ricordato della sua misericordia che si estende di generazione in generazione per quelli che lo temono (Salmo); l’esortazione dell’Apostolo di stare sempre lieti, pregando e rendendo grazie, senza spegnere lo Spirito in una continua ricerca della santità: “Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!” (II Lettura).

Meno evidente, tuttavia, è l’accento sulla gioia nel brano del Vangelo. Qui infatti ritorniamo nel deserto dell’ultima domenica: luogo dell’essenzialità, dell’aridità, del testimone scomodo che è Giovanni Battista. Vale la pena entrare più in profondità nel brano per scoprire i suoi richiami alla gioia vera.

Gli elementi essenziali da scoprire all’interno del testo per noi saranno tre: (I) il primo è l’elemento geografico che lo indica come profeta che sta alla soglia fra l’Antico e il Nuovo; (II) il secondo è che il testimone trae la sua forza dalla consapevolezza del suo limite; e il terzo (III): egli annuncia l’arrivo dello Sposo.

  • I. Che Giovanni sia un testimone “alla soglia” lo capiamo da un dettaglio apparentemente secondario alla fine del brano: “questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando” (1,28).

Ricorre questa menzione altre due volte (3,26; 10,40), dove il vangelo evidenzia lo stare Giovanni “dall’altra parte del Giordano” con Gesù “al quale (il Battista aveva) dato testimonianza” (3,26). Mentre esistono interessanti ricerche sul luogo di “Betania”, certamente distinto dal paese di Marta, Maria e Lazzaro, e solo nell’ultimo secolo verificato come luogo esistente nella storia, per noi è sufficiente capire che la figura di Giovanni sta necessariamente ancora al di là del fiume! Sta arrivando, invece, il vero Giosué (Yehoshùaˁ = Gesù), colui che farà passare oltre il Giordano per condurre il credente che lo accoglie alla Terra Promessa (e questo meglio ancora del successore di Mosé!). Giovanni testimonia (anzi, fino al martirio); ci annuncia colui che arriva. Non è lui l’Atteso ma doveva fargli da testimone. “Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce” (1,8).

  • II.Quando i Giudei interrogano Giovanni (vv. 19-27), gli offrono l’occasione di testimoniare. Viene così sottolineata quella tensione che fin dal Prologo del Vangelo vi è fra la luce e le tenebre. L’interrogatorio appare a tutti gli effetti come un processo nel tribunale giudaico: “«Tu chi sei?» Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?» «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose.” La triplice “confessione” di Giovanni è, di fatto, un triplice rinnegamento di sé: letteralmente nel greco, “non sono”!

È interessante notare che anche Pietro usa le stesse parole: “Non sono”, mentre rinnega Gesù per tre volte. Le “negazioni” di Giovanni, a differenza di quelle da parte di Pietro, sono segno dell’autoconsapevolezza e identità del testimone (martire) fondate sulla verità: quando conosco la verità su di me, non mi vanto di una identità non mia, non approfitto dell’attenzione pubblica ma vivo l’autenticità. Non mi perdo in deliri di onnipotenza ma riconosco il mio limite. Il testimone riconosce il suo nulla e si salva, perciò Giovanni “confessò e non negò”; Pietro, invece, “negò (…) e subito un gallo cantò” (Gv 18,27), costretto ad ammettere il suo nulla nell’atto stesso di negare (18,17.25).

Le risposte del Battista ai Giudei effettivamente rivelano la sua identità: letteralmente, “io, voce di uno che grida nel deserto…”. Per il Vangelo di Giovanni solo Gesù è l'”Io Sono” (se si può: nemmeno la lingua lo costringe a dire “Io sono voce…”!). Solo Gesù è lo Sposo atteso, è la Parola/il Verbo mentre il Battista è solamente la voce. L’umiltà del testimone rende libera la sua confessione e perciò è forte; la verità infatti è che non siamo nulla davanti a colui che unicamente “è”. Perciò chi è decentrato, chi è umile è in grado di indicare la realtà e presenza di chi sta “in mezzo a voi” e che “voi non conoscete” (1,26); le tenebre e il mondo infatti non possono riconoscerlo (1,10). Perciò l’importanza di vigilare affinché anche i credenti a cui è rivolto il messaggio del Battista non cadano nell’errore e si assopiscano.

  • III .L’interpretazione dell’umiltà del Battista potrebbe oscurare la comprensione di una sua affermazione o, meglio, non rivelare tutta la sua portata: “colui che viene dopo di me (letteralmente, il “veniente” come perfino da titolo messianico): a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo” (1,27).

Slegare i sandali richiama diversi significati in Israele. Oltre ad essere un invito alla penitenza (per cui era impossibile che Giovanni avrebbe potuto invitare Gesù alla penitenza), sciogliere i sandali alludeva alla legislazione sul matrimonio e quindi veniva associato al contesto delle nozze. Se un uomo rinunciava al diritto di sposarsi con una donna, doveva togliersi il sandalo, segno della cessione ad altri del suo diritto. Questo senso è sottointeso nell’atteggiamento di Giovanni che affermando di non poter togliere a Gesù il sandalo, dichiara di non aver alcun diritto di prendersi la sposa poiché “lo sposo è colui al quale appartiene la sposa” (3,29). È Gesù lo Sposo della Chiesa sua Sposa; Giovanni, invece, è ciò che lui stesso descrive ad Ennòn (3,23) quando cominciano tutti ad accorrere a Gesù per farsi battezzare: “l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (3,29-30).

Giovanni è quindi “l’amico dello sposo” che gioisce alla sua voce, simbolo quest’ultima, insieme con la voce della sposa, della gioia per eccellenza in Israele. Nella prassi matrimoniale, l’amico dello sposo aveva un vero e proprio ruolo giuridico, per cui conduceva tutte le trattative fra le due famiglie dei promessi sposi, inclusa la celebrazione delle nozze e la dote che la sposa doveva portare: funzione importantissima che esigeva una fiducia assoluta e amicizia intima con lo sposo. Perciò si può dire che è stato Giovanni questo amico intimo del Signore che ha permesso ai futuri discepoli di Cristo di unirsi totalmente a Lui, felice solo che potessero farlo, senza pensiero di invidia da parte sua nei confronti dello Sposo.

Facciamo bene a contemplare la gioia di queste nozze, che è il simbolismo dominante nella Sacra Scrittura (vedi Osea; le parabole nuziali di Matteo 22 e 25; 2Cor11,2; Ap 22,17) per descrivere l’alleanza fra Dio e il suo popolo, un simbolismo che non rimane solo letterario ma che addita alla grande realtà mistica invocata quando partecipiamo con fede alla celebrazione eucaristica (sempre una celebrazione delle nozze fra Cristo e la Chiesa), ed esclamiamo con speranza in questo Avvento: “Maranà tha! Vieni, Signore Gesù!”. “Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!»”.

Questa gioia, derivante dall’amore per il Signore, deve crescere, l’io e l’egoismo diminuire (cfr. Gv 3,30), a imitazione del testimone Giovanni Battista la cui gioia è perfetta!

Don Piero Isola,
Sacro Cuore di Gesù, La Forma