“Il Martirio nella Bibbia” di Don Massimo Grilli

Conferenza in occasione del 1750° anniversario del martirio di S. Agapito
Palestrina, Cattedrale di S.Agapito – venerdì 15 dicembre 2023

Il tema del martirio è scabroso e insolito. Per diversi motivi: anzitutto perché non è un tema molto ricorrente nella nostra formazione e nella nostra predicazione, in secondo luogo perché, quando se ne parla, si incorre in una sovrapposizione e in una confusione concettuale che non aiuta a comprendere e in terzo luogo perché è un conto parlare di martirio nel rifiuto e nella persecuzione ed è un altro conto parlarne in un contesto di comodità e sicurezza. E tuttavia è necessario parlare di martirio proprio per queste stesse ragioni che ho appena accennato e che rendono difficile l’argomento. Vorrei dunque questa sera affrontare l’argomento, non in maniera esaustiva ovviamente, ma in prospettiva biblica, sia perché la Parola della Bibbia deve essere all’origine di ogni riflessione, sia perché ci offre una visione forse più autentica del martirio e di cosa esso comporti per dei credenti.

A questo punto è necessaria una premessa, che riguarda la dimensione lessicale e semantica. Se andate all’ottimo Dizionario della lingua italiana di Devoto – Oli, come primo significato del termine martirio trovate: “il sacrificio della vita accettato in nome della fede” e il martire viene definito come colui che “in nome della propria fede o dei propri ideali accetta il sacrificio di Sé stesso fino alla morte”. Se adesso andiamo alla Bibbia e alle due lingue principali (ebraico e greco) in cui essa è stata scritta, troviamo che il vocabolo ebraico ‘êd e quello greco martys / martyreô hanno un significato più largo, quello di “attestare pubblicamente, testimoniare…”. Nella Bibbia ebraica e cristiana, infatti, si insiste sul martirio come testimonianza data in favore di una persona o di una causa. Il termine ebraico ‘êd / testimone è applicato talvolta persino a Dio, perché è proprio Lui che testimonia mettendosi a fianco di qualcuno/a per difenderlo dall’arbitrio e dalla menzogna. E quando Gesù, negli Atti degli Apostoli, invia i suoi discepoli ad annunciare il Vangelo, li rende coscienti del proprio compito dicendo: «riceverete forza dallo Spirito santo che scenderà su di voi e sarete miei testimoni (mou martyres) a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra!» (At 1,8). Ecco il manifesto programmatico del Risorto. L’attestazione del martirio come noi lo intendiamo, e cioè come termine tecnico che identifica chi subisce una morte violenta a motivo della fede in Cristo, compare solo nel II secolo dell’era cristiana, negli Acta Martyrum.

A livello biblico, si deve concludere, dunque, che la testimonianza del martirio non può essere attribuita solo a figure eccezionali che muoiono per difendere la propria fede, ma a tutti coloro che lottano con passione e coraggio per la verità e la giustizia e sono disposti a subire ostracismi e vendette a motivo del Regno di Dio e della sua Verità. Agostino ha affermato: «Martyres non facit poena sed causa» (Esposizioni sui Salmi 34,II,13), ossia «ciò che rende martiri non è il supplizio ma la causa». Ecco il punto: quasi a dire che si diventa martiri per come si vive e non solo per come si muore e che il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, perché testimonia la verità contro la menzogna, senza guardare i propri interessi. È proprio a motivo di questa testimonianza alla verità di Dio e dell’uomo che il testimone viene perseguitato, talvolta fino alla morte fisica.  Un vescovo brasiliano, Helder Camara, negli anni ’70, a Firenze, in una piazza gremita di giovani diceva: «la disgrazia più grande che possa capitarvi è che viviate per voi stessi e che la vostra vita non serva a nessuno». Ecco: il martire è colui che – per amore del Regno di Dio – partorisce la vita e la partorisce morendo, giorno dopo giorno e non solo nel momento conclusivo. La Bibbia è piena di queste figure ed è proprio su di esse che vorrei impostare il mio discorso sul martirio. Più che una trattazione astratta e speculativa, dunque, vorrei presentare brevemente alcuni modelli di martirio che troviamo nella Bibbia, lasciando ad altri di affrontare altri aspetti di natura filosofica o teologica. Alla luce di quanto ho detto, vorrei proporvi allora il martirio di alcune figure bibliche. Se ne potrebbero menzionare diverse altre, ma ho scelto quelle che mi sembrano più idonee per attualizzare il discorso.

  1. Il profeta martire

Un significativo testo di Nehemia, scritto dopo l’esilio, ripercorrendo la storia dei padri in una bella preghiera che si trova nel capitolo nono, afferma fra l’altro: i nostri padri …furono ritrosi e ribelli a te; si gettarono la tua legge dietro le spalle e uccisero i tuoi profeti che li ammonivano per ricondurli a Te…(Neh 9,26).  La tradizione cristiana riprende questo filo conduttore del rifiuto dei profeti che raggiunge il suo apice nell’uccisione di Gesù, come racconta la parabola dei vignaioli omicidi: alla fine mandò il proprio figlio, pensando che avrebbero avuto riguardo di suo figlio. Ma i coloni, vedendolo, dissero fra sé: «E’ l’erede. Orsù, uccidiamolo; così avremo la sua eredità». Lo presero dunque e, portatolo fuori della vigna, lo uccisero  (Mt 21,38-39). La Bibbia, dunque, testimonia un filo rosso che congiunge il primo giusto martirizzato, Abele, con Gesù e i discepoli di Gesù. Non conosciamo dai testi sacri la sorte di molti profeti, ma Isaia, nella considerazione di tutti, era il martire segato e Geremia si pensava fosse stato lapidato o bruciato vivo. È proprio Geremia, poco prima del 587 quando Israele venne spazzato via da Nabukadnezzar a parlare dei profeti divorati dalla spada (Ger 2,30). Quali sono le «colpe» per cui i profeti sono rigettati e uccisi? Soprattutto due: l’opposizione al potere idolatrico che opprimeva e schiacciava i più deboli e la denuncia al culto vuoto e ipocrita, un culto che si ammanta di cerimonie, ma non cambia i cuori. Prendo due esempi, molto attuali: Amos e Geremia.

L’epoca di Amos è lo splendido regno di Geroboamo II, un sovrano malato di grandezza e di nazionalismo (Am 6,13-14). Sul piano economico, gli scambi commerciali favorivano la prosperità di alcuni e l’estrema povertà di altri, con una situazione che risentiva di gravi squilibri sociali (cfr. Am 6,4-7; 3,12). Sul piano religioso si faceva sfoggio di intensa pietà, corredata da splendide cerimonie, ma dietro la facciata si nascondeva un gran vuoto di contenuti (cfr. 4,4-5; 5,4-5.21-27; ecc.).           In questa situazione il profeta fu afferrato da Dio (laqah: 7,15) da Jhwh e inviato a proferire la parola di Dio: una parola di denuncia, che prende le difese dei diritti di Dio dei poveri: hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri; e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome, su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio. Ecco dunque la testimonianza di Amos, una testimonianza (diciamo la verità) che ci urta, perché Amos dice un «no» radicale (Das «nein» des Amos) a tutto il sistema, un sistema malato di ingordigia: dice un “no” radicale alle strutture religiose, politiche e sociali di una società corrotta, un “no” alla falsa sicurezza di un popolo che legittima il proprio tornaconto, fondandolo sull’elezione divina (cfr. 3,2a; 9,7), un “no” alla teologia ufficiale che sembra avallare la comoda interpretazione dell’elezione intesa come privilegio, un “no” al culto ufficiale, che dietro una facciata splendida nasconde il vuoto e, ancora peggio, la presunzione di essere a posto davanti a Dio. È per questa testimonianza, per questo martirio, che Amos viene odiato dal potere politico e religioso, fino al momento in cui Amasia, sacerdote di Betel, con l’assenso di Geroboamo, dice ad Amos: «Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno» (Amos 7:10-13).

Geremia vive a cavallo tra il vii e il vi secolo a.C. Tutto il suo ministero profetico può essere letto come un’ininterrotta passione, che nasce dal contrasto tra il suo annunciare la parola di Dio – la quale «è per lui causa di vergogna e di scherno tutto il giorno» (cf. Ger 20,8) – e il suo essere perseguitato dalle autorità religiose legittime (cf. Ger 18,18), al punto che egli si sente «come un agnello mansueto condotto al macello» (Ger 11,18). Un sacerdote del tempio lo fa fustigare e mettere in prigione (cf. Ger 20,2) e, in seguito alla sua profezia sul tempio, Geremia viene arrestato e riceve una sentenza di morte, sventata all’ultimo momento (cf. Ger 26). Come già aveva fatto Zaccaria in punto di morte (cf. 2Cr 24,22), anche Geremia chiede a Dio di vendicarlo (cf. Ger 15,15). Dio però non interviene contro i suoi nemici, lascia che il profeta scenda allo she’ol della disperazione, lo mette a confronto con i falsi profeti senza che appaia con chiarezza l’autenticità della sua testimonianza: Geremia vedrà bruciare il rotolo su cui sono scritte le sue parole (cf. Ger 36,l-26), finirà in una cisterna fangosa rischiando la morte (cf. Ger 38,1-12) e sarà trascinato in Egitto, solidale col peccato del suo popolo (cf. Ger 43,1-7). Nei momenti tragici dell’esistenza di quest’uomo, Dio sembra abbandonarlo e rifiutargli la sua testimonianza; eppure Geremia dà sempre la sua testimonianza a Dio, gli rimane fedele fino alla morte fuori della terra santa. Una morte che, secondo la rilettura della tradizione giudaica, è un vero e proprio martirio: «Geremia morì a Tafni, in Egitto, lapidato dal popolo» (Vite dei profeti 2).

 

Vorrei concludere questo primo punto sul martirio dei profeti con una riflessione: il martire è un uomo appassionato. La ragione di questa passione dei martiri risiede ultimamente in Dio stesso, perché il Dio della Bibbia non è un Dio indifferente; al contrario è un Dio “appassionato”, che non “contempla” semplicemente le vicende umane, ma vi partecipa; non giudica le azioni dell’uomo con impassibilità e distacco, non se ne sta fuori dal raggio della sofferenza umana. I Profeti condividono questo “pathos” di Dio, il suo dolore e la sua sconfitta. L’apatheia / impassibilità non appartiene al Dio di Israele. Lo Stoicismo – filosofia nobile, che ha abbondantemente influito sullo sviluppo del pensiero cristiano – considera il pathos uno stato da cui l’uomo è chiamato a liberarsi. Colui che vuole essere signore di sé deve imparare a camminare nella via dell’imperturbabilità e del distacco, imponendosi appunto l’a-patheia. Anche gli antichi, nobili testi del Taoismo insistevano sul «Tao (= la Via)» come eterno silenzio, calma perenne, perché il cielo non parla e non ode gli affanni umani. La Bibbia non percorre questa via: il pathos / la passione appartiene a Dio e ai suoi testimoni, ai suoi martiri. È una passione che testimonia fino alla morte la verità di Dio e la verità dell’uomo.

  1. Il martirio di una famiglia

Vorrei passare al martirio di una famiglia conosciuta nella Bibbia come la famiglia dei Maccabei. A rigor di termini si tratta di una famiglia ebrea, ma è interessante che, nei primi secoli del cristianesimo i martiri maccabei entrarono nel martirologio cristiano come esempio da imitare di fronte alla persecuzione dei cristiani nell’impero romano.

Con i Maccabei facciamo un salto cronologico rispetto al profetismo e ci e spostiamo al momento dell’ingresso dei greci nel mondo orientale. L’ingresso dei Greci nella Palestina (siamo intorno al 330 a.C.) diede inizio a quel periodo – caratterizzato dall’incontro tra la cultura greca e quella orientale – che va sotto il nome di “Ellenismo”. Certamente l’ingresso dei Greci portò nell’Oriente uno sviluppo socio-culturale innegabile, ma creò anche forte tensioni, soprattutto dopo la morte di Alessandro Magno, con l’abolizione dei principali comandamenti della Torah,  la sostituzione delle feste religiose ebraiche (es. Sukkot) con feste pagane (i Baccanali) e la profanazione del tempio di Gerusalemme, con l’introduzione del culto pagano di Zeus (Dn 9,27; cf. 1Mac 1,54). Sette fratelli e la loro madre si ribellano, pronti a morire piuttosto che rinnegare la Torah (cf. 2 Mac 7). Il loro martirio viene raccontato in 2 Macc 7, in modo dettagliato e talvolta con particolari assai macabri, allo scopo di sottolineare la loro fedeltà e la loro preferenza di andare incontro alla morte piuttosto che trasgredire la Legge di Dio (7,2).

È rischioso comparare l’epoca ellenistica in cui vissero i Maccabei con la nostra, ma forse se manteniamo un sano equilibrio, il paragone potrebbe essere istruttivo. Come al tempo dell’ellenismo, anche oggi viviamo un momento cosmopolita, pluralistico, polimorfo della cultura. La società, la filosofia e la cultura liquida del nostro tempo (definizione di Zigmund Bauman) ha molti punti in comune con l’epoca dei Maccabei. Anche la situazione decadente e prossima a finire di quella civiltà e della civiltà romana che la sostituirà (Roma entrò nel 63 a. C., ma palesava già caratteri di decadenza) sono paragonabili ai nostri. Non c’è dubbio la nostra cultura occidentale stia attraversando una profonda crisi i cui esiti non sono chiari. Ovviamente, le notevoli strutture economiche e materiali ancora in nostro possesso rendono, in qualche modo, il fenomeno meno appariscente e la decadenza più lenta, ma è fuori di dubbio che la tendenza sia molto evidente.

La nostra testimonianza cristiana oggi (parlo in maniera generale e non dei singoli) condivide questo declino dell’occidente (si tratta infondo del declino dell’occidente “cristiano”). È soprattutto a livello valoriale, di i modelli comportamentali e paradigmi culturali di massa che il confronto si fa più stringente. Non parlo solo di indirizzi etico-comportamentali, ma del radicamento valoriale-esistenziale. Il sistema valoriale pagano si è incuneato nel tessuto cristiano (pensate all’infiltrazione di valori e costumi pagani nella festa del Natale che oscura il senso religioso). Di cristiano rimane spesso l’involucro… E questa infiltrazione pagana è oggi molto più subdola di ieri, perché teoricamente l’ideologia dominante non ci priva delle nostre libertà: continuiamo ad avere libertà di parola, di culto, di insegnamento della religione, di sacramenti… ma la crisi – ce ne rendiamo tutti conto – è profonda e siamo chiamati tutti a ripensare i modelli della nostra fede e della nostra testimonianza.

Ecco allora la domanda: cosa significa testimoniare il martirio oggi? Di quali connotati deve rivestirsi la testimonianza dei cristiani per ritornare all’essenziale della nostra fede e per recuperare quei modelli comportamentali e quei paradigmi culturali che sembrano scomparsi dal nostro orizzonte? Sono domande cruciali che dobbiamo porci, se non vogliamo portare il cristianesimo a una insignificanza totale.

  1. Il martirio di Gesù e di Stefano

Vorrei concludere con la morte di Gesù e di Stefano, il protomartire. Li considero insieme, perché è lo stesso testo del Nuovo Testamento a creare questo connubio modellando la morte di Stefano su quella di Gesù.

Nel NT, la morte di Gesù ha un carattere polisemico, nel senso che può essere letta, ed è stata letta in molti modi. Alla morte di Gesù sono stati dati tanti significati negli stessi scritti del NT: il significato del giusto che muore per gli empi, quello dell’espiazione dei peccati, ecc. In effetti, non possiamo dimenticare che la morte in croce era la morte di un maledetto, una morte vergognosa, turpe: «maledetto chi pende dal legno»: Gal 3,13; cf. Dt 21,23), maledetto chi è appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini. È la mors turpissima di cui parla Origene (Commento a Matteo XXVII, 22), il supplizio estremo inflitto a chi è stato giudicato nocivo alla polis e nemico della comunità credente.

Per la prima comunità cristiana, interpretare la morte di Gesù era dunque fondamentale, proprio per cercare di comprenderne il senso. Il primo filone fecondo che la chiesa delle origini trovò per spiegare la morte di Gesù fu quello della continuità con i profeti, tanto è vero che Matteo e Luca pongono sulle labbra di Gesù queste parole: Gerusalemme Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati… (Lc 13,34). È interessante che Gesù viene ucciso e viene ucciso Stefano, il primo discepolo martire, lapidato tra i seguaci di Gesù viene lapidato (At 7,59). Gesù dunque subisce la stessa sorte dei profeti e Stefano la stessa sorte di Gesù. È in questa luce profetica che vorrei leggere ora la morte di Gesù, ben sapendo che è soltanto una delle letture, ma non per questo meno vera. Inizierei col dire che quella di Gesù non è una morte ineluttabile: Gesù viene crocifisso, perché il suo stile di insegnamento e di vita era considerato offensivo da molti: contestava la menzogna del potere politico e religioso, sconvolgeva le gerarchie sociali, compagno di pubblicani e peccatori, gente reietta e marginale… Uno studioso statunitense, John P. Meier, una trentina di anni fa ha pubblicato dei volumi intitolati: A marginal Jew, dove mette in evidenza che Gesù si rese e fu marginalizzato sotto tanti aspetti e pur appartenendo come ebreo a una Palestina giudaica occupata dal potere romano, alla fine fu marginalizzato dai poteri di ambedue i mondi. Il suo martirio fu quello di essere estromesso: marginalizzato nella vita dalle istituzioni e messo a morte dalle stesse istituzioni con un’esecuzione vergognosa e brutale.

Mi fermo su un solo episodio, forse quello più appariscente e decisivo per la condanna. È l’ultima azione di Gesù che viene compresa come un’azione contro il tempio e ché provocherà la decisione di ucciderlo (Mc 11). L’episodio del fico senza alcun frutto che Gesù maledice e l’azione nel tempio, da dove Gesù scaccia quelli che vendevano e che compravano, sono strettamente connessi. Il fico sterile è la metafora di una religiosità sterile. Mi spiego meglio: il gesto di Gesù nel tempio non ha di mira la purificazione del giudaismo e delle sue istituzioni (come si è spesso inteso), ma denuncia un certo modo di intendere Dio e ha come scopo il ritorno a una relazione autentica, fatta di comunione e non di pantomime vuote. Perché anche Dio può essere ridotto a un idolo, quando lo si mette a proprio servizio e lo si maneggia per i propri interessi.  Tutta la testimonianza biblica testimonia che Dio non può essere ingabbiato, perché è libero da ogni presunzione e soprattutto dalla presunzione di chi pensa di comprarlo con spazi sacri, riti sacri e sacrifici. A un popolo che pone la sua fiducia in un sistema costituito da garanzie politiche, sociali e religiose, Gesù ricorda che il problema è più radicale: la sopravvivenza di un popolo è legata alla fedeltà a Dio.

Ecco la testimonianza dei martiri: solo la fede autentica libera dall’idolatria, solo una relazione vera con il Dio vero. Ed è proprio questa la testimonianza di Stefano, il primo martire cristiano, che testimonia Gesù come il nuovo tempio, dicendo: l’Altissimo non abita in dimore fatte da mani di uomini (At 7,48). Si tratta di un modo nuovo di intendere la relazione con Dio, che riporta alle origini, quando non c’era tempio, né offerte, né sacrifici: forse che mi avete offerto vittime e oblazione nel deserto per quarant’ anni, casa d’Israele? (Am 5,25). La vita e la morte di Gesù, dunque, possono essere lette in questa ottica: Dio vuole un amore autentico e la croce è la testimonianza di un amore autentico. In fondo anche la nascita di Gesù, che ci prepariamo a celebrare, entra in questa ottica del martirio, perché  può essere letta come la scelta di vivere e di morire per amore, come dice una preghiera della chiesa bizantina: sei venuto sulla terra per cercare Adamo e non lo hai trovato sulla terra e allora sei sceso negli inferi… Ecco, dunque il martire: colui che per amore scende sino agli inferni degli uomini per riportarli alla dignità di figli: di Dio e dell’uomo. Il martirio allora diventa la trasformazione dell’ignominia della croce in Amore.

Conclusione

Ritorno a quanto dicevo nell’introduzione: il martire non sceglie il modo di morire, ma il modo di vivere e Gesù ci ha mostrato in maniera definitiva e sublime cosa significhi essere martiri. Stefano è il primo che ha preso il vivere e morire di Gesù come modello ed è andato fino in fondo al cammino. Forse verrà ancora il tempo in cui anche a noi, come ai martiri della Bibbia, verrà chiesto di versare il sangue a motivo della fede nel Signore Gesù. In verità sta già avvenendo in alcuni contesti dove i cristiani sono una minoranza. Fino al giorno in cui una tale estrema testimonianza sarà chiesta anche a noi, non dovremo vivere come servi inetti e inutili, ma come figli della luce che testimoniano con fedeltà e coraggio la venuta del Signore.

Don Massimo Grilli