Il monastero? «Una corsa nella quale vince chi perde, chi non lascia indietro gli altri», parola di suor Maria Benedetta Galici

Nell’imminenza della giornata delle claustrali che si celebrerà il 21 novembre, la riflessione di una delle monache benedettine di clausura di San Giovanni Battista in Subiaco

Il mondo sta attraversando un momento molto delicato. Come se non bastassero da soli i cambiamenti climatici a portare con sé sempre nuove catastrofi, ecco la minaccia ancora più terribile di una guerra che può considerarsi alle porte. Ha senso ancora allora dedicare una giornata alla vita claustrale e magari “sprecare” anche tempo a riflettere sul suo significato? Sì, senza dubbio ce l’ha, e non solo per noi che la viviamo ma soprattutto perché, proprio in questo tempo, ha qualcosa da dire al mondo.

Il messaggio che vuole trasmette parla dell’Amore, quello con la A maiuscola, non quello a tempo, impacchettato e già corredato di scadenza che troppo spesso ci viene proposto.

Sappiamo che la vita del cristiano in genere dovrebbe essere una vita d’Amore, ma a colui che fa la scelta monastica, impegnandosi a conformare la sua vita a quella di Cristo, viene richiesto questo impegno 24 ore su 24 senza scappatoie. Potrebbe suonare strano accostare l’alternativa di una scappatoia all’amore, non però se si mette in conto che Amare è una scelta, ed ha molto più a che fare con la decisione e la determinazione che con il sentimentalismo e l’emozione. Una comunità di monache non è formata da persone che si scelgono in base a simpatia o affinità di carattere e di gusti, mada una chiamata di Dio. È Lui che decide di chiedere a determinate persone di vivere insieme.

Perché? Forse solo per insegnare loro ad amare gratuitamente.

Il monastero non è un luogo dove si cerca la realizzazione personale o la carriera, e la vita claustrale non consiste in una specie di gara a chi arriva prima a conquistare le virtù a scapito dell’altro. Se proprio volessimo paragonare questa vita ad una gara sarebbe una corsa nella quale vince chi perde, chi non lascia indietro gli altri, chi aspetta il ritardatario o l’infortunato, chi, calpestando il proprio orgoglio, accetta di lasciarsi aiutare se in difficoltà!

La vita monastica quindi ci insegna a vivere di misericordia e nella misericordia perché ci rende pienamente consapevoli che solo questa salva noi e gli altri, non i nostri sforzi o le nostre prodezze ascetiche.

In effetti è proprio per facilitare questa presa di coscienza ed agevolare questo tipo di cammino che la vita del chiostro è così regolamentata: la disciplina, le norme, i divieti, sono indispensabili prima di tutto per mantenere il necessario ordine in comunità, e magari possono andare un po’ stretti all’inizio, ma poi come dice San Benedetto nel Prologo alla Regola, l’abitudine li fa sentire normali e connaturali al proprio stile di vita, e si riesce a comprendere bene come essi siano uno strumento e non un fine.

Limitano l’espressione della nostra umanità ed individualità, quando si esprime in tendenze naturali che rischiano di essere eccessive, di debordare, e ci insegnano proprio a dare spazio agli altri, a vivere le relazioni e le vicende in modo equilibrato. Gli arginamenti tanto durial nostro ego da farci percepire sulle prime la comunità come un ostacolo alla nostra presunta emancipazione, in seguito ci disvelano alla luce di Dio come sia proprio la comunità quell’aiuto necessario per la crescita nella carità.

Il messaggio è chiaro quindi: imparare ad Amare, riuscendo a vivere insieme pur nella diversità, è possibile; la vera guerra allora è quella che siamo chiamati a combattere ogni giorno contro le nostre tendenze disordinate, quelle che dentro di noi ci portano a respingere e a combattere gli altri, non per mero filantropismo ma perché la carità dovrebbe contraddistinguere l’esistenza di ogni figlio di Dio.