Indulgenza plenaria, penitenza e assoluzione. Storia e significato

Uno dei segni principali del Giubileo è sicuramente quello dell’indulgenza. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1459 troviamo esplicitata la definizione di indulgenza e la sua differenza rispetto all’assoluzione: l’assoluzione toglie il peccato, ma non porta rimedio a tutti i disordini che il peccato ha causato. Risollevato dal peccato, il peccatore deve ancora recuperare la piena salute spirituale. Deve dunque fare qualcosa di più per riparare le proprie colpe: deve «soddisfare» in maniera adeguata o «espiare» i suoi peccati. Questa soddisfazione si chiama anche «penitenza».

In sostanza il perdono dei peccati non toglie le conseguenze del peccato in noi, le cosiddette “pene temporali” per cui si esige un lavoro di purificazione. È proprio in questo lavoro che il fedele è aiutato e sostenuto dalla Chiesa in modo particolare con il dono delle indulgenze, che sono una partecipazione gratuita e più intensa alla santità della Chiesa: di Cristo Capo, della Vergine Maria e dei Santi.

Come scrive Mons. Fisichella l’origine dell’indulgenza non è dovuta a un fenomeno spontaneo, ma è stato preparato e partorito all’interno di quella prassi penitenziale che la Chiesa ha sempre conosciuto. Storicamente il Giubileo nasce all’ombra della “grande indulgenza” che il popolo di Roma chiese al Papa.

Secondo i commentatori dell’epoca, l’occasione immediata del Giubileo si concretizzò nel dicembre 1299 quando tra il popolo iniziò a formarsi la convinzione che nell’anno centenario – l’anno 1300 – i pellegrini alla basilica di San Pietro avrebbero ottenuto una “pienissima remissione dei peccati”, vale a dire “l’indulgenza”. La notizia arrivò a Papa Bonifacio VIII che il 22 febbraio 1300 firmò la bolla Antiquorum habet fide relatio, con la quale concedeva «in virtù della pienezza della potestà apostolica un’indulgenza di tutti i peccati, non solo piena e più abbondante, ma pienissima”».

Fu papa Alessandro VI, per l’Anno Santo del 1500 a concedere che l’indulgenza plenaria fosse applicata in suffragio per le anime del purgatorio tramite un’elemosina che serviva per il rifacimento della Basilica di San Pietro.

Fu proprio contro questa pratica che si scagliò Martin Lutero affermando che è meglio soffrire volentieri le pene dei peccati che non sottrarvisi mediante le indulgenze. Durante il Concilio di Trento venne ristabilita la giusta interpretazione delle indulgenze affermando che «esse sono molto salutari per il popolo cristiano» e sono nell’errore quanti pensano che «esse siano inutili o che non possano essere concesse dalla Chiesa, tuttavia il rischio di «cosificazione» e di «quantificazione», (specialmente in soldi), non fu del tutto evitato.
Assistiamo così al sorgere di un cumulo di indulgenze legate a opere sempre minori; al sorgere delle «indulgenze plenarie» e «indulgenze parziali», computate in riferimento alle «penitenze tariffate» in cui erano descritti gli anni richiesti per scontare la pena di determinati peccati gravi.

L’indulgenza finì per essere «praticata» e «pensata» come realtà la cui essenza non aveva più alcun rapporto con la celebrazione ecclesiale della penitenza, ma come realtà a sé stante, talora praticata esteriormente senza una corrispondente conversione interiore.
All’indomani del Concilio Vaticano II, Paolo VI promulgando la Costituzione Apostolica “Indulgentiarium doctrina” ripropone in forma rinnovata la dottrina sulle Indulgenze. In essa, pur riconoscendo gli “abusi” riguardo alla dottrina delle indulgenze, ne approfondisce il significato e l’importanza nella vita cristiana, affermando che il fine dell’indulgenza poi «non è solo quello di aiutare i fedeli a scontare le pene del peccato, ma anche di spingerli a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità, specialmente quelle che giovano all’incremento della fede e al bene comune».

Daniele Masciadri