San Vittorino Romano, Santuario di Nostra Signora di Fatima, Domenica 13 ottobre 2024
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Carissimi amici, ancora benvenuti e grazie per la vostra presenza, che come vostro Vescovo guardo con gratitudine e accolgo già come dono prezioso e segno di speranza per la vita della nostra Chiesa di Tivoli e di Palestrina!
Un rinnovato saluto e ringraziamento ancora a Mons. Fisichella per la sua presenza qui nonostante i suoi molteplici impegni pre-giubilari e per quanto ci ha detto.
Abbiamo accolto con particolare attenzione quanto ci ha voluto consegnare oggi per aiutare la nostra Chiesa a prepararsi al Giubileo ormai alle porte, maturando lo spirito giusto, con l’attenzione a non ridurre il Giubileo ad un evento celebrativo, ma a viverlo come dono di grazia e permettere allo Spirito di agire lasciando un segno nuovo e bello nel volto della nostra Chiesa.
In questo mio intervento vorrei condividere con voi le linee del cammino che come Chiesa diocesana vogliamo compiere in questo anno pastorale, riferendomi alla Lettera “All’improvviso dal cielo” (At 2,2) che ho consegnato nel mese di agosto.
Già è stato fatto un lavoro importante e bello all’interno delle comunità chiamate a leggere la Lettera e a confrontarsi insieme, alla luce delle sollecitazioni offerte a partire dai punti essenziali del testo. Lo stesso lavoro è stato chiesto ai sacerdoti che si sono già incontrati costruttivamente nelle Vicarie. Sono arrivati molti contributi, frutto di questo primo tempo di confronto e di condivisione a diversi livelli. Tali contributi sono “voce” preziosa che ci riconsegna il tanto bene già presente nella nostra Chiesa, come anche i desideri insieme alle difficoltà che si traducono in prospettiva di un cammino che sarà incarnato proprio perché aderente alla realtà umana e pastorale che viviamo. Una realtà così diversa per area geografica (la piana vicino alla Capitale, i centri di Tivoli e di Palestrina, le aree interne, di montagna che durante il giorno sono poco popolate o popolate ormai solo in maggioranza da anziani e che si ripopolano alla sera o nei fine settimana).
Un’altra voce accoglieremo ancora oggi da voi presenti a questo “momento di Chiesa Diocesana”, nello scambio che seguirà a questo primo momento, uno scambio che sarà tipicamente sinodale per lo stile e nel quale ancora ascolteremo le riflessioni e le proposte. Quale il senso di questi passi che a qualcuno potrebbero sembrare inutili o inefficaci?
Ricordiamo come il Cammino sinodale ci chiede di essere Chiesa capace di declinare le tre dimensioni fondamentali: comunione, partecipazione, missione. Bene! Queste parole debbono diventare esperienza concreta, attraverso l’esercizio lento di incontro, di ascolto, di condivisione, di confronto e di progettazione missionaria nelle nostre terre. Un’esperienza concreta che ci chiede di vivere l’icona di riferimento della Lettera Pastorale, tratta dagli Atti degli Apostoli al capitolo 2, dove si dice che “stavano tutti insieme nello stesso luogo”. Questo “stare” si arricchisce di un approfondimento se consideriamo quanto scritto, poco prima, al versetto 13 del capitolo primo degli Atti; si dice “abitavano” che è qualcosa di più dello “stare”, perché dice continuità e stabilità, dice soprattutto familiarità. Questo è lo spirito che ha animato il cammino di questi primi mesi con i diversi incontri che abbiamo vissuto (per chi ha voluto farlo): creare familiarità nel nome di Gesù.
Questo, lo sappiamo bene, chiede impegno e a volte fatica; chiede di “uscire da noi stessi”, di superare i pregiudizi, gli schemi; di abbandonare quello spirito di rassegnazione legato al passato, che ostacola e blocca la novità che lo Spirito vuole operare. Ricordiamo come di fatto i discepoli vivono la stessa situazione che potremmo vivere noi, perché vengono da un passato di abbandono e di tradimento, ciascuno di loro aveva il peso di quanto vissuto e di quanto non era stato capace nei giorni della passione. Nonostante tutto essi continuano a stare insieme e solo così accolgono la novità che Dio prepara per loro, il cammino di rinnovata speranza.
Mi piace condividere a tal proposito quanto scritto a proposito del Sinodo: “ricordiamo che lo scopo del Sinodo non è produrre documenti, ma far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani”.
Questo richiamo delinea il volto di una Chiesa bella, capace di accogliere il dono della speranza, di custodirlo e di alimentarlo, senza spegnerlo o soffocarlo, per viverlo poi nella missione alla quale lo stesso Signore invita e invia: “mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At.1, 8)
Oggi più che mai verso la parola speranza è volta l’attenzione, a volte inconsapevole, degli uomini e delle donne del nostro tempo. Viviamo una storia densa di nubi: la guerra su diversi fronti, la violenza forte che ci raggiunge ogni giorno in molteplici modi e ambiti (a livello storico, sociale, familiare …) e che arriva a toccare il limite impensabile nei figli che sterminano la famiglia, nelle mamme che uccidono i figli che nascono, nella violenza e nelle uccisioni delle compagne e madri dei propri figli (eventi spesso consumati alla presenza dei figli …), nei ragazzi che spesso vivono la violenza come unico linguaggio di cui sono capaci, che sfregiano la loro bellezza con comportamenti di morte (nella droga, nell’alcool, nella consumazione sfrenata e vorace di eventi). Rischiamo di essere disorientati perché ovunque ci volgiamo c’è precarietà, instabilità, male, violenza, morte. Vorremmo forse fuggire, siamo tentati di chiuderci nelle esperienze dove stiamo bene, dove con Pietro potremmo dire “è bello per noi stare qui! Facciamo tre tende …”. Ma il Signore stesso ci riporta a valle, ci rimanda a valle, ci fa stare “dentro” la storia e ci chiede di abitarla con responsabilità, con passione e con spirito profetico.
Ce lo ridiciamo: dentro questa storia ci siamo noi, non altri, ed è qui che spendiamo l’unica possibilità che abbiamo mentre camminiamo verso la grande Speranza. E questa storia ci interpella personalmente e come Chiesa, ci vengono posti interrogativi forti, pesanti, difficili. Sono interrogativi segnati dal filo rosso della disperazione (ossia della non speranza di-sperare) a volte consapevole, a volte celata, ma che abita nel cuore di tutti.
Da cosa nasce questa disperazione? Da quello che già accennavo prima: la mancanza di stabilità, l’incapacità di trovare un senso a ciò che accade. Ci si concentra in tante analisi sociologiche, psicologiche, storiche che certamente hanno un loro valore, ma spesso non si arriva alla soluzione, perché forse si crede che non esista una soluzione. E questo getta disperazione su disperazione e porta a subire la storia, fino a rimanerne schiacciati.
Questa analisi che posso condividere oggi con voi è certamente sommaria e tocca solo alcuni punti in modo generale. Ce lo impone il tempo a disposizione e l’intento che ho di disegnare l’orizzonte di riferimento del nostro cammino. Nella Lettera Pastorale richiamo più diffusamente la consapevolezza che, come Chiesa, noi siamo dentro questa storia, ne siamo parte e nei solchi inariditi e avvizziti dobbiamo deporre semi di speranza! Questo ci rende profeti autentici, preparati e credibili, capaci di “abitare il mondo in quanto agli eventi” che in esso accadono, ma di “eccederlo in ordine al senso” con il quale vivere.
Gli eventi sono frutto di scelte sbagliate, di logiche di male, di dinamiche di peccato … Il senso, quello vero, è dono che scende “all’improvviso dal cielo”.
A quale senso mi riferisco? Non è il senso di programmi e strategie da approntare e da mettere in campo (anche se come Chiesa a volte siamo tentati di fare questo, pensando che questo possa bastare). No!
Il senso che condivido con voi e che richiamo nella Lettera è quello che ci insegna Maria, donna profetica, a Cana.
C’è una situazione di difficoltà, tutti si agitano e fanno l’analisi “non c’è più vino”, forse alcuni si saranno anche attardati a trovare il responsabile, a individuare di chi fosse la colpa. Maria non si perde dentro queste dinamiche, le ascolta e le accoglie, ma con la fortezza e la decisione tipiche del profeta, orienta l’attenzione verso Colui che è la soluzione: “fate quello che vi dirà”. Ecco cosa condivido con voi.
Come Chiesa noi siamo chiamati a ravvivare questa certezza: il Signore Gesù Risorto è colui che può dare senso. È lui la risposta unica, essenziale e insostituibile al bisogno di pace, perché dice “vi lascio la mia pace, non come la da il mondo io la do a voi” (Gv14,27 ss.); è Gesù l’unico che può portare la Vita dentro la morte perché ci ricorda che ”Io sono la Resurrezione e la Vita” (Gv 11,19); è Lui “Via, Verità e Vita” (Gv14,6), la Via da percorrere per vivere nella Verità, da cui nasce la Vita.
È Gesù che promette la gioia “vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e sia piena” (Gv 15,11). Lui, e solo Lui, può riportare il vino della gioia dentro le giare vuote, fredde e dure come la pietra: le giare dei cuori, della storia e a volte anche della nostra religiosità.
Lo so bene che sto dicendo la cosa più ovvia, qualcuno potrà dire che tutto questo “è scontato”: ma a volte si perde l’importanza proprio di ciò che è ovvio. Perché vedete, quello che è importante non è “sapere” una cosa, ma “crederci” e “viverla” davvero.
Mi sembra che a volte il pericolo che, come Chiesa, viviamo è quello di “sapere” che Gesù è tutto questo, di “dirlo” nelle nostre celebrazioni, nelle catechesi, nei programmi che facciamo, ma poi di fatto ci può accadere di non crederci veramente e quindi di non viverlo.
Gesù c’è, lo conosciamo, sappiamo di Lui, ma poi di fatto al centro ci siamo sempre noi, che con la nostra presunzione pretendiamo di guidare il timone della barca; magari diciamo che lo facciamo per Lui, per Gesù, ma di fatto non è così.
La vera fede non è guidare la barca “nel nome” cioè “al posto di Gesù”, ma lasciare che sia Gesù a guidarla, consegnare a Lui il timone, rimetterlo al suo posto: che è il centro.
Come ci richiamava Bonhoeffer e come abbiamo condiviso già in passato: “Gesù o è al centro oppure non è”.
Ecco allora la missione alla quale tutti siamo richiamati. Non è una missione che ci manda dapprima “fuori”, verso gli altri, i lontani per annunciare un messaggio “saputo”, conosciuto. No, c’è una missione precedente a questa o comunque parallela e contestuale a questa: ed è tornare dentro il Cenacolo della nostra Chiesa, radunarci intorno alla presenza centrale di Gesù: porci a sedere deponendo ogni saccenza umana, che ci fa già sapere tutto e ci rende preoccupati e affaccendati nel “fare”; fare silenzio da ogni tentativo, da ogni organizzazione e previsione e lasciar parlare Lui. È quanto propongo nella Lettera Pastorale: auspico un ritorno alle origini, alle sorgenti del nostro essere, per riscoprire la dimensione della spiritualità che si nutre dei due movimenti essenziali: sedere ai piedi del Maestro e fare silenzio per ascoltare.
Centrale è la riscoperta della spiritualità: risposta al desiderio profondo del cuore, apertura verso la relazione intima con Dio Padre, che si rivela in Gesù, in Lui parla e si dona e nello Spirito opera nel nostro cuore.
Nella Lettera Pastorale cito un riferimento al teologo e filosofo ceco Thomas Halik scrive: “la sfida principale per il cristianesimo di oggi è il cambiamento di rotta dalla religione alla spiritualità. Mentre le forme istituzionali della religione tradizionale ricordano sotto molti aspetti l’alveo di un fiume quasi in secca, l’interesse per la spiritualità di ogni tipo sembra una piena in precipitosa crescita che sfonda i vecchi argini e scava nuovi percorsi” (Pomeriggio del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2022). Verso questa direzione richiamava già nel 1969 il Cardinale Joseph Ratzinger quando scriveva: “un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata. A quel punto gli uomini scopriranno di abitare un mondo di indescrivibile solitudine e avendo perso di vista Dio, avvertiranno l’orrore della loro povertà. Allora, e solo allora, vedranno quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”. Davvero profetiche queste parole se pensiamo all’oggi della nostra storia. E altrettanto illuminanti circa la direzione da intraprendere con decisione: il ritorno all’essenziale relazione con Gesù.
Papa Francesco lo ricordava: “la vita spirituale non è una tecnica a nostra disposizione, non è un programma di benessere interiore che sta a noi programmare. No. La vita spirituale è la relazione con Dio, il Vivente, irriducibile alle nostre categorie, stare col Signore, imparare a stare col Signore senza altro scopo, esattamente come ci succede con le persone a cui vogliamo bene: desideriamo conoscerle sempre più, perché è bello stare con loro.” (Catechesi all’Udienza Generale del 16 novembre 2022).
Nel nostro contesto pastorale questa “sfida” si declinerà in questo anno nell’ascolto della Parola nella forma della Lectio Divina e della Scuola della Parola e nella forma di lettura personale come sensibilità spirituale da coltivare. Nella Lettera ho suggerito anche la forma “ecclesiale” con la quale vivere l’ascolto: la dimensione comunitaria, ma anche quella per Vicarie.
Credo che per la nostra appartenenza e identità diocesana ci sia bisogno di “stare tutti insieme nello stesso luogo” per accogliere il dono della comunione che non nasce dall’essere nello stesso territorio (a tal proposito conosciamo le difficoltà pastorali che a volte si vivono tra comunità vicine), neppure dal condividere lo stesso programma (sappiamo come molti programmi e progetti pastorali vengono a volte ignorati, altre volte bypassati, altre volte stravolti e vissuti come si ritiene, si crede giusto e conviene per attirare consenso); il dono della comunione non può prescindere dal vivere insieme esperienze di incontro con Colui che è il motivo, il senso e la forza della comunione.
Per fare comunione non bastiamo noi, neppure la nostra buona volontà, né le nostre pratiche religiose. Occorre altro, occorre l’Altro che è il “motivo” della comunione, non un ideale filosofico e teorico, ma un’esperienza viva e concreta.
Ogni altro tentativo, e anche qui ne abbiamo fatto e ne facciamo esperienza, resta sulla carta e si vanifica.
Accogliamo allora la proposta di vivere esperienze di ascolto della Parola per Vicarie nei tempi di Avvento e di Quaresima, come anche il tempo fecondo nello Spirito degli esercizi spirituali nelle comunità nel tempo di Quaresima.
Da questo nascerà anche la vera missione.
Cos’è la missione?
- Non è uscire e annunciare un sapere riguardo Gesù, ma è condividere l’esperienza di incontro con Lui, vissuta personalmente e che ha cambiato la vita.
- Missione non è dire teorie e pratiche circa la comunione, ma è condividere la bellezza dello stare insieme nel nome di Gesù (questo farà effetto anche tra i giovani se sapremo accoglierli nelle nostre famiglie parrocchiali facendo sperimentare che i nostri luoghi sono la loro casa …).
- Missione infine non è “parlare di Dio”, ma “lasciar parlare Dio”.
Siamo chiamati come Chiesa ad essere una “cassa di risonanza” che consente alla Parola che Dio pronuncia nella Chiesa di riecheggiare fuori di essa: nel mondo e nella storia. E una buona cassa di risonanza deve essere vuota.
Alla Chiesa di essere “vuota” di sé, di ogni altra parola umana che disturba.
Ecco la prospettiva che oggi condivido con voi e che, nella Lettera Pastorale è maggiormente specificata e approfondita. Le parole chiave che oggi richiamo a voi tutti e con le quali desidero terminare sono: speranza, spiritualità, comunione e missione. E mi piace comporle in questo modo: “ascoltare il desiderio di speranza che abita il cuore di ogni uomo e donna del nostro tempo e ravvivare nella nostra Chiesa la presenza di Gesù Risorto, unica speranza, coltivare una profonda relazione con Lui e tra di noi nella vera comunione per diventare capaci di far risuonare nel mondo la Sua Parola di Vita nuova”.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina