“La Parola di Dio nell’Apocalisse di Giovanni” di Don Massimo Grilli

Nelle diocesi di Tivoli e Palestrina celebriamo quest’anno la “Domenica della Parola” concentrando la nostra attenzione su un tema che è insieme paradossale e provocante: un tema che riguarda la “Parola di Dio nel libro dell’Apocalisse”.

Il tema della Parola di Dio nell’Apocalisse è anzitutto paradossale, perché nei diversi libri apocalittici che conosciamo, protagonista non è la Parola, ma la Visione; i veri protagonisti sono i veggenti, afferrati e condotti in un altro mondo per contemplare le cose che dovranno accadere. È piuttosto il genere profetico ad essere invece incentrato sulla Parola, sull’oracolo divino trasmesso dal profeta. «Così dice il Signore» è un ritornello che si trova nei libri profetici. Nel genere apocalittico, invece, i veggenti vengono beneficiati da Dio con la visione di eventi inaccessibili all’uomo comune.

E tuttavia, se leggiamo attentamente l’Apocalisse di Giovanni, l’unico libro apocalittico che abbiamo nella nostra bibbia, ci rendiamo subito conto di un particolare: all’inizio e alla fine troviamo una bella inclusione, di carattere semitico: in apertura, nel capitolo primo, abbiamo: “beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia…” (1,3) e nella conclusione, in 22,7 troviamo: “beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro” (22,7) e ancora “guai a chi toglierà qualche parola a questo libro profetico” (22,19).

Abbiamo a che fare dunque con un’Apocalisse da leggere come Parola profetica, Parola rivolta a tutti noi. Ovviamente “profezia” non va inteso come previsione del futuro; nel linguaggio biblico, il profeta è colui che sa leggere il presente, colui che scruta gli eventi che accadono oggi e, sulla base di ciò che accade sotto i nostri occhi, il profeta sa scegliere l’atteggiamento corretto per costruire il futuro che ci sta dinnanzi.

Ecco, dunque, il paradosso: l’autore dell’Apocalisse, che si presenta come Giovanni, è un profeta che ci insegna a leggere il presente, ciò che accade sotto i nostri occhi, per poter essere fedeli alla nostra chiamata in un mondo avverso e complesso, dove Dio scompare ogni giorno di più.

Ho anche detto che il nostro tema è provocante. La ragione è semplice: l’immaginario collettivo associa l’Apocalisse ai grandi film hollywoodiani che mostrano catastrofi spaziali, mostri invincibili e battaglie vertiginose. Niente di più improprio se pensiamo in questo modo all’Apocalisse di Giovanni. Se leggiamo e interpretiamo correttamente l’Apocalisse, ci rendiamo conto di una quantità di simboli che hanno tuttavia una funzione ben precisa, che non è quella di terrorizzare e neppure quella di informare su ciò che accadrà sulla terra nel futuro o alla fine dei tempi, ma piuttosto quella di mettere in guardia i lettori su ciò che sta accadendo oggi e sull’atteggiamento da tenere di fronte agli eventi che accadono. È vero che una delle funzioni della parola è l’informazione ed è vero che mediante la parola noi raccontiamo e descriviamo ai nostri amici gli eventi che sono accaduti o che accadranno, ma non è questo lo scopo principale della parola nell’Apocalisse. E cioè, l’Apocalisse di Giovanni non vuole informare su ciò che avviene o avverrà. Apocalisse significa “svelamento”, “rivelazione”, ma non in questo senso divinatorio. Nelle religioni antiche l’arte divinatoria aveva il compito di prevedere il futuro. La Parola nell’Apocalisse ha principalmente un’altra funzione: offrire ai credenti dei criteri per poter interpretare nel profondo la storia: la propria e quella del mondo. Nell’Apocalisse di Giovanni non sono gli eventi catastrofici a dominare la scena, ma la Parola che chiama l’uomo ad andare oltre, a superare i luoghi comuni, il bla bla che contraddistingue i nostri chiacchiericci, per scorgere un disegno più profondo e più ampio: il Progetto di Dio. Potremmo anche dire che lo scopo dell’Apocalisse è inculcare nel credente una speranza, una speranza che viene da Dio e che non viene meno, “nonostante” sembri il contrario.

Ho insistito su queste due premesse un po’ lunghe, ma necessarie, per sfatare i pregiudizi che abbiamo sull’Apocalisse. Adesso vorrei, invece, entrare con voi in questo libro per comprenderne appunto le dinamiche, la rivelazione che la Parola dell’Apocalisse ci offre sul nostro presente ecclesiale e sulla nostra storia. Tra le tante piste possibili,  scelgo tre aspetti che riguardano la Parola di Dio rivolta a noi in questo libro.

  • Iniziamo con i primi tre capitoli, dove si trovano le lettere che il Risorto invia a sette

chiese. Si tratta di sette comunità concrete, sette comunità che si trovano sulla costa egea dell’Asia Minore (nell’attuale Turchia): Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Sono sette, ma rappresentano la totalità delle comunità cristiane che si trovano nel mondo, comprese le nostre di Tivoli e Palestrina. Se leggiamo attentamente ciò che il Cristo risorto dice a queste comunità, ci accorgiamo che ricorre uno schema fisso: a) conosco le tue opere b) ho qualcosa da dirti c) chi ha orecchi ascolti… A queste comunità è rivolta una Parola che riconosce il positivo quando esiste, ma allo stesso tempo denuncia il negativo, rimproverando, esortando e tracciando cammini diversi… Diciamo che la Parola di Cristo alle chiese dell’Asia minore è una Parola impegnata, che non fa sconti sulla malvagità, ma sa aprire alla speranza del cambiamento. Prendiamo un esempio concreto: la parola alla chiesa di Laodicea: «conosco le tue opere… sei tiepido, non sei né freddo né caldo e sto per vomitarti dalla mia bocca… tu dici sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla… ma non sai d’essere un infelice, un miserabile, un povero cieco e nudo…» (3,15ss.) Parole difficili da digerire quelle appena ascoltate. Ma ci viene ricordato che il primo compito che abbiamo (e questo vale in ogni situazione relazionale) è di non mentire davanti al male che è dentro di noi o in mezzo a noi. Ci sono tenebre anche nei nostri atri e dobbiamo riconoscerle anzitutto, senza fuggire nell’ipocrisia. Se prendiamo sul serio la Parola, dobbiamo riconoscere che una delle ragioni principali per cui Dio ci parla è proprio questa: la Parola di Dio ci permette di portare alla luce elementi nebulosi che si sono sedimentati lungo il cammino, di farli riemergere e di metterli in ordine. La Parola dell’Apocalisse dice che c’è del marcio nella nostra vita e nelle nostre comunità ecclesiali: non dobbiamo voltare le spalle.

E tuttavia, la funzione della Parola di Dio non si esaurisce qui. La Parola che ci inchioda alla verità di noi stessi è la stessa Parola che mostra la strada del riscatto: «Ecco Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta io verrò da lui a cenare con lui, e lui con me» (3,20). Anche nei nostri sentieri di tenebra la Parola dell’Apocalisse porta una speranza, se noi lasciamo entrare la luce. Un racconto rabbinico narra che il maestro chiese un giorno ai discepoli: «dove abita Dio?». I discepoli rimasero sbalorditi, esterrefatti: tu rabbi chiedi a noi dove abita colui che è nei cieli, sulla terra, negli abissi, ovunque… Il Rabbi fece silenzio, un silenzio imbarazzante e poi disse: «Dio abita dove lo si lascia entrare». Ecco come un cammino di tenebra può diventare un cammino di luce: bisogna aprire la porta e lasciar entrare la Luce, perché anche la notte può rivestirsi di luce. La tiepidezza e talvolta la menzogna e la morte hanno avvolto le nostre comunità e la nostra stessa vita; far sì, che Dio possa entrare di nuovo è l’inizio della redenzione. Chi ha orecchi ascolti… è un ritornello dell’Apocalisse e della letteratura ebraica e cristiana così come la abbiamo nel Primo e nel Nuovo Testamento. Un invito a rimetterci in cammino ascoltando la Parola. Forse si tratta di una provocazione anche per noi: che posto ha la Parola nelle nostre comunità? Che posto ha l’ascolto? Se siamo sempre noi a parlare, se gli uomini e le donne del nostro tempo, se i giovani non trovano più persone che sanno ascoltare, si rivolgeranno altrove, con il rischio di trovare maghi e fattucchieri, venditori di fumo e di illusioni. È mai possibile che la nostra crescita e la crescita dei bambini, degli adolescenti e delle famiglie… che condividono con noi la fede sia affidata soltanto a devozioni più o meno appropriate, senza uno spazio privilegiato da riservare all’ascolto della Parola di Dio?  Possibile che ci sia spazio solo per consuetudini legittime, ma spesso vuote e un po’ stantie, senza nerbo e senza contenuti? Aprire le porte alla Parola di Dio è necessario se vogliamo ritrovare la strada come chiesa e come singoli credenti. Le comunità ecclesiali si trovano spesso in strade senza uscita: convertirci significa far rientrare la Parola di Dio nei nostri ambienti. È questo il primo messaggio dell’Apocalisse.

2) Seconda considerazione. Dopo aver iniziato con la Parola rivolta alle chiese, l’Apocalisse ci porta sulle strade del mondo, nel cuore della storia in cui siamo tutti immersi. Ci porta proprio là dove ribollono la vita e la morte per farci fare un cammino analogo a quello che abbiamo appena descritto a proposito delle sette chiese. E cioè: la Parola dell’Apocalisse ci svela nello stesso tempo il negativo che avvolge il mondo e la testimonianza che il credente è chiamato a dare.

Tra i tanti simboli che potrei scegliere, mi soffermo su quelli descritti in Ap 12-13, dove si parla di una triade animale: un drago, una bestia che sale dal mare e una terza bestia che sale dalla terra. Leggiamo: «Allora apparve un altro segno nel cielo. Un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi (12,3) e poi vidi venire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste e su ciascuna testa un titolo blasfemo… e l’adorarono tutti gli abitanti della terra… (13,1.8) e vidi poi salire dalla terra un’altra bestia…» (13,11). Ecco, dunque, la triade raccapricciante: il drago che vuole attentare al Messia di Dio dando la scalata al cielo, ma viene sconfitto e scaraventato sulla terra, dove cerca allora la complicità delle due bestie. Cosa accade allora? Gli uomini, svela l’Apocalisse, cominciano ad adorare la bestia…

Abbiamo dunque immagini piuttosto sconvolgenti, ma anche qui la Parola dell’Apocalisse – mediante figure mostruose e terrificanti – non vuole descrivere semplicemente le malvagità umane, ma vuole invece educare i credenti ad andare oltre la coltre di buio che avvolge le vicende umane, vuole insegnarci a smascherare la menzogna del mondo, i falsi idoli ai quali tributiamo la nostra adorazione. Noi lettori siamo chiamati in causa, siamo interpellati; ci viene chiesto: «quali sono gli idoli che tu adori, ai quali offri il tributo dell’incenso?». Oggi viviamo una crisi profonda, a livello ecologico, a livello di relazioni umane, perché abbiamo voluto sconfiggere il negativo della vita dando la scalata al cielo, costruendo magnifiche torri di babele, idoli, a cui offriamo oro, incenso e mirra. Si tratta di istituzioni o uomini potenti, si tratta di ricchezze agognate, di competizioni sfrenate, di potere che schiaccia e assoggetta… Si nascondono nella storia del mondo, ma anche nei nostri atrii ecclesiali. Un midrash sull’episodio della torre di Babele esprime a meraviglia il delirio di onnipotenza raccontando che la torre di cui parla Gen 11 aveva sette gradinate a oriente e sette ad occidente. Da una parte gli uomini salivano per portare i mattoni e dall’altra scendevano per andarli a caricare. Ora, se cadeva uno schiavo dalle impalcature e moriva, nessuno se ne dava pensiero, ma se cadeva un mattone e si rompeva, allora si facevano lamenti e si alzavano grida: «chi comprerà ancora il mattone? Quanto costerà?». Jhwh vide che gli uomini non piangevano per i loro compagni morti, ma si preoccupavano molto dei mattoni; allora scese e li disperse sulla faccia della terra.

Lo dobbiamo riconoscere, ciascuno di noi innalza o contribuisce a innalzare torri e poteri che schiavizzano. Quando alla domenica professiamo la nostra fede, dicendo: «Credo in un solo Dio…». Forse dovremmo pensare davanti a quanti poteri demoniaci siamo genuflessi, non per averne paura, ma per guardarli in faccia, per sconfiggerli e sconfiggere così la coltre di menzogna che ci avvolge. La morte ci ha accerchiato, lo spessore tenebroso ci ha coperto perché abbiamo avuto la presunzione di sconfiggere la morte con armi che sono competizione, arroganza, potere, ricchezza… senza riflettere sull’unica forza capace di vincere il negativo della vita: la fede, la fede di chi ama.

È su questo che poggia la nostra speranza: il presente è segnato da atrocità e prove di ogni genere, ma nonostante la loro ferocia, il drago e le bestie non vinceranno, perché non sono Dio. Ma Dio ha posto questa Speranza nelle nostre mani: tutti noi, i credenti, siamo chiamati a testimoniare che gli idoli offrono soltanto illusioni, ma non salvano, perché solo Dio mantiene le sue promesse. Gli idoli sono ciechi e sordi, ingannatori per natura: promettono, ma non mantengono… Dio è più forte degli idoli. Noi, che crediamo, sapremo testimoniare con la vita tutto ciò?

3) Ed eccoci alla terza e ultima considerazione sulla Parola nell’Apocalisse. Questa terza riflessione ha il suo habitat in due luoghi strategici del libro: all’inizio e alla fine.

Incomincio con il brano iniziale, che si trova nel primo capitolo, dove si dice che a Giovanni prigioniero e tribolato nella piccola isoletta di Patmos, nel giorno del Signore… si presenta uno, simile a un figlio d’uomo… il quale – posando su di lui la sua mano destra dice: «Non temere, Io sono il Primo e l’Ultimo… Io ho le chiavi della morte e degli inferi» (1,17-18). Ecco dunque, qui disegnata un’ulteriore funzione della Parola nell’Apocalisse.  Giovanni tiene a precisare che siamo nel giorno del Signore e dunque nel giorno che segna la vittoria sulla morte e sulle bestie che tengono l’uomo prigioniero della morte. In questo giorno di domenica risuona forte una Parola: «Io ho le chiavi della morte e degli inferi!». La Parola dell’Apocalisse dunque, sin dal primo capitolo ci dice che il giorno del Signore ci è dato perché sappiamo discernere nella quotidianità della storia, nell’ordine storico del mondo, negli inferni della nostra vita, un altro ordine, un kairos: quello del Risorto, perché è Lui che ha le chiavi della morte e degli inferi! Lui può entrare persino negli inferni costruiti dalle mani dell’uomo. Una bella preghiera della chiesa bizantina dice che Dio è venuto a cercare Adamo sulla terra, ma non lo ha trovato sulla terra, e allora è disceso agli inferi: «Il creatore di Adamo ha visitato Adamo negli inferi; è sceso e lo ha chiamato…, lui che l’aveva già chiamato tra gli alberi del paradiso: “Adamo dove sei?” gli aveva detto nel giardino (cfr. Gen 3,9). Quella stessa voce che lo aveva chiamato tra gli alberi, è discesa per chiamarlo tra i morti… Adamo era fuggito davanti a lui come un ladro; ma quando è entrato negli inferi lo ha illuminato…».

Inoltrandosi nel libro dell’Apocalisse, i lettori non devono mai dimenticare questa prima parola che si trova nel primo capitolo. Quando la Chiesa dimentica questo, tradisce la sua missione e non ha più nulla da dire. Perché noi non siamo chiamati a portare una sapienza umana e non siamo neanche chiamati ad essere portatori di una spiegazione del mondo: siamo invece chiamati ad essere araldi del Risorto, di Colui che ha le chiavi della morte e degli inferi. Siamo chiamati ad annunciare al mondo che, è vero: il fallimento, la morte ci appartengono, strutturano la nostra vita e la nostra storia, ma la potenza della Parola di Dio ci libera dalla morte, ci libera dai nostri inferni. Questa è la fede che ci salva! Se questa fede viene meno rimangono le strutture, involucri vuoti che non ci rendono felici e non ci salvano perché senza fede anche le liturgie, i sacramenti… sono scheletri, involucri senz’anima.

E veniamo a un altro luogo strategico del libro, forse il più suggestivo e importante, che si trova nei capitoli 21 e 22 dell’Apocalisse: «…vidi un nuovo cielo e una nuova terra e vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme discendere dal cielo, adorna come una sposa per il suo sposo e udii una voce potente che diceva… «Ecco io faccio nuove tutte le cose…» (21,1-2). La visione della Gerusalemme celeste è un testo importante, non solo a motivo del fatto che la descrizione della città occupa due capitoli (21 e 22) e non solo per il fatto che Gerusalemme viene menzionata nella Bibbia più di 800 volte, ma soprattutto perché siamo alla conclusione del libro e dell’intera Bibbia cristiana. Come se l’autore volesse mostrarci la meta del nostro viaggio e la meta di una storia travagliata e contraddittoria come la nostra. Diciamo subito che questa visione di una città che scende dal cielo potrebbe farci sognare eventi inverosimili e potrebbe confonderci inoculando dentro di noi una spiritualità dell’evasione: la felicità è altrove, nell’aldilà, in un futuro remoto che non ci appartiene perché le nostre città non sono città ideali per viverci. Aspettiamone dunque una nuova.

No, l’Apocalisse non ci permette questa spiritualità dell’evasione.  Per capire il testo dobbiamo rileggere le vicende di Gerusalemme nella Bibbia ebraico-cristiana, dove troviamo almeno due città di “Gerusalemme”. Lo dice in qualche modo anche la strana forma duale del nome ebraico Jerushalaim. La forma -aim è un plurale, quasi a dire che ci sono appunto due città. E infatti, nella tradizione ebraica e cristiana si parla da una parte di Gerusalemme come città santa, città eletta, città che Dio ha scelto come sua dimora e accanto a questa si presenta anche un’altra Gerusalemme, colma di nefandezze e di peccato, una città che uccide i profeti e lapida gli inviati di Dio (Mt 23,37-39).

Dunque, cos’è questa Gerusalemme che scende dal cielo? Lo dice la voce che viene dal trono (21,3) e proclama la vittoria sulla morte. Si tratta della risurrezione di Cristo: è la risurrezione che scende dal cielo, perché la risurrezione può essere solo opera di Dio e non dell’uomo. Tutto questo significa però che Dio non crea un’altra città al posto di quella malvagia che esiste sulla terra. La risurrezione è la trasfigurazione di questa città, di questo uomo, di questo mondo, perché Dio è fedele alla terra che ha creato, all’uomo che ha impastato. Questo significa che Dio strappa dalla morte la Gerusalemme terrestre, la città in cui viviamo. Le nostre città… impigliate nelle crisi, annegate nelle colpe, che percorrono sentieri di tenebra… sono però strappate alla morte, grazie alla risurrezione di Cristo che ha vinto la morte.

Tutto questo significa imparare a capire e a credere che Dio non è “altrove”, ma “altrimenti”, nel senso che il cristiano non fugge in un altro luogo, non si rifugia in un “altrove”, in una terra dove non esiste malvagità e peccato: non ci è permesso evadere in un “altro mondo” quando vivere in questo diventa difficile. Il cristianesimo non parla di una “Gerusalemme celeste” per farci spiccare il volo quando la Gerusalemme terrestre diventa invivibile.  Parlando del mondo che verrà (cf. Mt 22,23-33; ecc.), o di cieli nuovi e terra nuova (Is 65,17; 66,22; Ap 20; ecc.) i testi biblici del Primo e del Nuovo Testamento non intendono affatto mettere in dubbio l’incrollabile fedeltà di Dio a questa prima e unica creazione.  L’“altro mondo” non è che la trasfigurazione del primo, del nostro, quello in cui viviamo. La nuova Gerusalemme sorgerà là dove l’uomo cammina nella giustizia e nella fedeltà, nella mitezza e nella verità. Dio ha amato questa terra e non si pente. Dio ha scelto “questo” uomo e non lo abbandona.  Dio non cancella la nostra vita, ma glorifica questa vita che abbiamo e che viviamo. Una tradizione rabbinica racconta che di fronte alla distruzione del tempio di Gerusalemme e davanti al lamento dei fedeli che non possedevano più il luogo dove venivano espiati i peccati di Israele, Rabbi Johanan ben Zakkai disse: «Figlio mio… noi abbiamo uno strumento di espiazione più efficace ancora: … sono le opere di misericordia, come sta scritto: misericordia io voglio e non sacrificio (Os 6,6)».  Ecco, dunque, il motivo per cui nella Gerusalemme celeste non ci sarà più il tempio fatto da mani d’uomo: perché la Presenza di Dio sarà visibile in coloro che custodiscono la hesed, la Parola di un amore misericordioso, perché la vera luce che illumina la notte sono le opere di misericordia dei credenti. Allora la profezia sulla nuova Gerusalemme dove non ci sarà più né lutto, né pianto, né dolore né morte perché le cose di prima sono passate (Ap. 21) sarà per tutti noi una speranza, ma anche un compito.

E concludo dicendo che, proprio quando tutti noi avremo svolto il nostro compito, quando avremo tentato di costruire la città terrena, emendando la nostra condotta malvagia, facendo giustizia agli oppressi, quando avremo asciugato le lacrime, sostenuto i piedi vacillanti e le braccia cadenti di tanti sofferenti… allora potremo pronunciare anche l’ultima Parola del libro dell’Apocalisse, che è anche l’ultima Parola della nostra Bibbia cristiana: Maranatha! (Ap 22,20). Si tratta di una bella invocazione liturgica da proclamare in chiesa soprattutto quando l’avremo già proclamata nella liturgia della vita. Maranatha si lascia leggere in due modi. La prima possibilità di lettura è Maran-atha / il Signore è venuto e, dunque, confessiamo la certezza che Dio è venuto ed è già qui, in mezzo a noi. Ma l’altra possibile lettura è Marana-tha / Signore vieni, e allora si tratta della speranza che venga ancora, che venga presto. Ecco, dunque, la nostra speranza e il nostro compito secondo l‘Apocalisse: ce ne andiamo tra un «già» e un «non ancora», immersi nella storia, nella nostra vita cocente, ma anche con lo sguardo fisso alla mèta, sostenuti dalla Parola.

Massimo Grilli