Si è tenuta venerdì 12 agosto alle 21, presso il duomo di Sant’Agapito Martire a Palestrina, la presentazione del libro Non tutti sanno, a cura di suor Emma Zordan, delle Adoratrici del Sangue di Cristo. Presenti diversi ospiti: la dottoressa Gabriella Stramaccioni, garante dei diritti dei detenuti, Emilio Monti, ex detenuto, il giornalista Roberto Monteforte, che ha moderato la serata, il sindaco Mario Moretti. Numeroso ed attento l’uditorio.
Zordan ha risposto ad alcune nostre domande.
Suor Emma, perché ha deciso di scrivere questo libro?
In “Non tutti sanno”, come in tutti gli altri cinque libri pubblicati, si raccolgono le testimonianze dirette dei reclusi che da otto anni partecipano al laboratorio di scrittura creativa al C.R. di Rebibbia. Ne sono anche loro gli autori. Da questi scritti emerge la loro consapevolezza per gli errori compiuti, il rimorso, la paura, la rabbia e il pentimento, la solitudine e l’abbandono. Sono il segno doloroso della privazione della libertà, del dolore per i reati commessi e soprattutto la sofferenza per aver rese vittime anche le loro famiglie e resi orfani i figli. Davvero è straziante il rimorso verso i propri figli che vedono crescere solo durante l’ora dei colloqui o la vergogna per la perdita della propria identità che cercano di riscattare. Questa è la realtà del carcere, con le sue ferite che ho pensato fosse giusto raccogliere in un libro. Il mio obiettivo è far conoscere il più possibile questo pianeta sconosciuto e cercare di abbattere la troppa indifferenza che fa sentire il recluso una discarica sociale.
In cosa è consistito il suo servizio in carcere e cosa le ha donato?
Quello del carcere è un servizio che richiede tanto ascolto, delicatezza, rispetto, sostegno personale, incoraggiamento. Sollecita una presenza decisa e capace di accogliere sempre, una presenza non rigida e giudicante, che non costruisce dogane, ma che si metta costantemente accanto al sofferente, senza chiedere nulla in cambio. Cerco di rendere la vita del detenuto più umana, dignitosa, più significativa. In carcere non servono grandi discorsi. Occorre infondere fiducia, suscitare speranza e soprattutto costruire un rapporto vero, profondo e amichevole, fatto di scambio e di quotidianità.
Il carcere mi ha cambiata, ha stravolto il mio modo di essere “chiesa in uscita”. Mi ha spinto ad essere “samaritana” attenta a curare le ferite. Mi ha reso madre, sorella, donna pronta a dar vita e a generare coraggio, resilienza, voglia di continuare a lottare per farcela. Il carcere ora è la mia casa, la mia ragione di vita.
Dalla sua esperienza, che posto ha la fede nella vita del carcere?
Sembrerebbe strano, ma il detenuto sente forte la presenza di Dio nella sua vita; lo prega, lo interroga, gli chiede di aiutarlo a sapersi perdonare per quanto commesso. Dai loro racconti emerge l’immagine misericordiosa di un Dio che non giudica, che perdona, di un Dio che va in cerca della pecorella smarrita, di un Dio «terreno buono», il solo capace di cambiare la loro vita. Così il carcere può diventare luogo di esperienza di incontro vero con Cristo.
Che messaggio si sente di dare a tutti noi e ai detenuti?
A noi, società benpensante che condanniamo per sempre, respingendo in modo brutale chi ha sbagliato rivolgo l’invito a cambiare sguardo. A rivedere l’idea che chi ha commesso un reato debba “marcire per sempre” dentro quattro strette mura. Dovremmo impegnarci a superare ogni indifferenza verso questi fratelli. Che non si sentano marchiati a vita. La nostra attenzione dà loro speranza, li fa sentire più vivi e certamente meno soli.
Ai detenuti chiedo di non cedere, di essere forti, resilienti soprattutto di fronte alla tanta indifferenza che uccide la loro anima. L’esperienza con loro mi ha insegnato tanto. Mi ha resa molto più sensibile di fronte a tante loro esigenze disattese. La pandemia globale è stata dura per tutti, ma drammatica per i reclusi alle prese con sovraffollamento e condizioni d’igiene sanitaria tanto gravi da facilitare tanti suicidi. È questo un dolore grande.