San Vittorino Romano, Santuario di Nostra Signora di Fatima, Giovedì 28 marzo 2024
“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).
Cari fratelli e sorelle, questa frase di Isaia ripresa da Gesù alla Sinagoga di Nazaret ci fa assaporare come il rapporto Dio-uomo non sia sotto il segno della legge e del dovere, ma dello Spirito Santo. È Lui che consacra e chiama ogni battezzato alla missione ed è Lui che ha chiamato e chiama ogni presbitero alla missione di portare ai poveri il lieto annuncio, di proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; di rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Ossia di annunciare a ogni uomo e donna il kerigma: Gesù è morto e risorto per te!
Di questa chiamata stamane tutti rendiamo grazie. Un rendimento di grazie che è come potenziato e moltiplicato dal rendimento di grazie di quei sacerdoti che in questo anno ricordano il 60° di ordinazione sacerdotale – Padre Giovanni Gisondi, degli Agostiniani di Genazzano –; il 25°: Don Andrea Pasquali, Don Honoré Baundu Boloko e Don Claudio Rossi – di Tivoli – e Don Celestino Vemba, Don Dante Leonardi, Don Giuseppe Piva, Don Jean Willy Bomoi Nkanda e Don Mihai Tancau – di Palestrina – e di quanti per la prima volta partecipano da presbiteri a questa Eucaristia: Don Andrea Strano, Don Natale Santonocito e Don Diego Lozzi.
Stamane non possiamo poi non ricordare al Signore quei confratelli nel sacerdozio che vivono questa chiamata nella malattia, nella difficoltà, con un carico di anni sulle spalle che si fa sentire fisicamente e psicologicamente.
Inoltre vogliamo insieme ricordare al Dio della vita i confratelli che dalla scorsa Messa Crismale hanno terminato la loro corsa terrena dopo aver vissuto la chiamata alla vita presbiterale: Mons. Alberto Carlo Fioravanti, Padre Andrzej Mieczyskaw Sosnowski, CR – della Mentorella –, Mons. Giovanni Tangorra e Don Romolo Sabbi. Il Signore conceda loro il premio promesso ai servi buoni e fedeli del Vangelo.
“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).
Sì, rendiamo grazie perché lo Spirito del Signore si è posato su di noi per una chiamata particolare al seguito del Maestro, una chiamata che al momento del nostro primo “sì” certo non potevamo immaginare dove ci avrebbe condotto. Ci ha portato, nelle diverse situazioni della vita che sperimentiamo, a servire Cristo e il suo popolo in vari modi e luoghi, ci porta a ripetere il nostro “sì” nelle varie fasi della vita con i relativi cambiamenti che esse comportano sugli assetti e gli equilibri psicologici e affettivi. Fasi che non sono senza ripercussioni su chi segue il Signore nel celibato a servizio dell’unità e della comunione di una precisa comunità cristiana e che indicano la necessità di fermarsi per esaminare il cammino fatto.
Cammino umano e spirituale che per essere esaminato necessita della preghiera che è l’atto con cui noi immettiamo ordine nel nostro disordine, creiamo cosmos nel nostro caos.
Stamane, pertanto, nell’anno della preghiera indetto da Papa Francesco in preparazione al prossimo Giubileo, vorrei fermarmi con voi, cari presbiteri, insieme al nostro popolo che è qui per dimostrarci vicinanza e affetto, a riflettere sulla nostra preghiera.
Partendo proprio dalla frase evangelica che ho scelto come filo rosso di queste mie parole: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18), desidererei che scoprissimo che la nostra preghiera, ossia il rapporto Dio-uomo non è sotto il segno della legge e del dovere, ma dello Spirito Santo e in tal modo diviene risposta umana alla parola e all’azione di Dio.
I nostri atti di preghiera, cari confratelli, sono spesso ripetitivi ma sono finalizzati sempre a una maggiore libertà da parte di chi prega e ad una sempre maggiore acquisizione del dono dello Spirito Santo.
Pensiamo per un attimo a una preghiera a cui siamo tenuti fin dal momento del diaconato: quella della Liturgia delle Ore. Essa ha come fine di “custodire e sviluppare uno spirito di preghiera” e la sua intenzione non è di ancorare a una formula fissa e immutabile di preghiera, ma di aiutare una persona ad assumere e interiorizzare il necessario spirito di preghiera. Meglio ancora, a ricevere e assumere lo Spirito Santo, dono promesso alla preghiera che lo chiede (cfr Lc 11,13).
L’invisibilità e il silenzio di Dio sono lo spazio che Egli offre alla nostra preghiera perché cresciamo quali figli nella libertà e perché possiamo “diventare ciò di cui non ci è possibile pensare qualcosa di più grande: e cioè, non già in alcun modo esseri divini, bensì, sotto ogni aspetto, esseri umani”.
Non dimentichiamo mai, cari confratelli, quei connotati essenziali e basilari che sono la nostra umanità e la nostra fede. Anche per noi preti, come per tutti, vale il diventare sempre più uomini e sempre più credenti. E per noi, tutto questo, nel quotidiano esercizio del nostro ministero.
Ciò che abbiamo scelto un tempo come risposta allo Spirito che ci chiamava, dobbiamo ri-sceglierlo ogni giorno nelle nuove e diverse situazioni della vita e nei cambiamenti d’epoca in cui il presbitero si viene a trovare. Come sono cambiati i tempi, soprattutto per noi con più anni di Messa alle spalle, rispetto al giorno della nostra ordinazione … e allora dobbiamo continuare il cammino della preghiera, dello stare sotto la legge liberante dello Spirito per divenire uomini e credenti.
Ciò non vuol dire che per essere uomini di preghiera non occorra anche uno sforzo. La preghiera ci fa sperimentare gioia, consolazione, riposo, ecc. ma rimane anche ascesi, fatica, lavoro.
Il pregare cristiano che si impara da Gesù non coincide con lo spontaneismo. Poiché la preghiera è relazionale e dialogica, non può essere semplicemente slancio spontaneo del cuore che porterebbe a una deriva soggettivistica della preghiera. Ha scritto Dietrich Bonhoeffer: “’Imparare a pregare’: è un’espressione che ci sembra contraddittoria. Noi diremmo piuttosto: o il nostro cuore sovrabbonda al punto tale che da se stesso comincia a pregare, o diversamente non imparerà mai a pregare. Ma è un errore pericoloso, in verità oggi molto diffuso tra i cristiani, il pensare che l’uomo possa naturalmente pregare” e aggiungeva Romano Guardini: “Chi medita onestamente e sinceramente sui suoi rapporti con Dio si accorgerà presto che la preghiera non è soltanto un’espressione spontanea del nostro intimo, ma che essa è anche e anzitutto un servizio compiuto nella fedeltà e nell’obbedienza. Così bisogna volerla e praticarla”.
Cari presbiteri, come la scelta di dire sì al Signore per la via del sacerdozio va sempre rimotivata, così anche quella della preghiera. E siccome la vocazione l’abbiamo compresa e accolta nella preghiera, dare continuità alla preghiera vorrà dire anche dare continuità alla vocazione.
Vorrei pertanto che stamane recuperassimo alcuni movimenti della preghiera affinché man mano scorre la vita passiamo da una preghiera appresa in seminario, molto rassicurante, a una preghiera sempre più accordata alla complessità dell’esistenza e all’imprevedibilità della vita onde sfuggire a un progressivo abbandono della preghiera a causa delle tante cose da fare, dell’angoscia del tempo che passa e che dobbiamo riempire di molte cose che vanno progressivamente a sostituire quella ritualità e abitudinarietà della preghiera che però ci custodisce nel rapporto con Dio.
Il segreto per non abbandonare la preghiera sta nello sviluppare l’umano, l’umanità che è in noi e che ci ospita, e giungere così a una preghiera che, proprio perché profondamente umana, sa essere relazione autentica con Dio.
Il primo movimento è innanzitutto l’ascolto.
L’ascolto è la forma essenziale e fondamentale della preghiera cristiana. La lectio divina con i suoi due movimenti essenziali di lettura e comprensione del testo e di applicazione a sé è preghiera. È il quotidiano esercizio che può aiutare il formarsi nel presbitero di un “cuore che ascolta” (cfr 1Re 3,9), sviluppando il senso e la capacità di discernimento nel presbitero e plasmandolo in persona capace di ascolto, ossia di quella che è la fondamentale relazione pastorale: ascoltare le persone, la loro sofferenza, accoglierle mediante l’ascolto, farle sentire amate. La preghiera umanizza il presbitero rendendolo sempre più uomo di ascolto. E la Chiesa oggi ha bisogno non di funzionari o grigi esecutori, ma di uomini, uomini umanizzati, con profonda vita interiore e quindi uomini “umani”.
Altro movimento è il silenzio. Il silenzio difficile perché ci scruta, ci pone nel faccia a faccia con noi stessi, con le presenze che attraversano il nostro cuore. Il silenzio che è così importante per il presbitero per forgiare una parola significativa e autorevole, non ripetitiva, stanca e stancante, non banale o sloganistica, non pigra; il silenzio per apprendere l’arte della comunicazione autentica, rispettosa, vitale. Il silenzio che è spazio fatto al Signore che bussa al nostro cuore. Il silenzio in cui si purificano le relazioni quotidiane e in cui si affina la responsabilità della parola, che è essenziale per il presbitero a cui è affidato in special modo il ministero della parola, che è servo della Parola del Signore: “Appartiene alle più grandi responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a colui che la ode” (Gadamer[1], La responsabilità del pensare. Saggi di ermenutica. Vita e pensiero, Milano 2002).
La preghiera esige poi solitudine dove l’interiorità dell’uomo cresce. Essa è essenziale per il presbitero che è quotidianamente immerso in molteplici relazioni, attività, che lo pongono a contatto con persone di svariate età, condizione sociale, spesso portatori di problemi gravi. La solitudine è indispensabile per trovare forza e saldezza, per avere radici profonde e per apprendere l’arte di differenziare le relazioni e i linguaggi. Inoltre è nella preghiera nella solitudine e nel silenzio che si arriva a trovare e sperimentare la presenza del Signore che abita in noi.
Altro passo importante per la preghiera è la lettura alla quale oggi vorrei incoraggiarvi. Non solo la lettura della Parola di Dio ma la lettura di buona letteratura, di testi di aggiornamento su tematiche inerenti il ministero o che consentono approfondimenti sulla vita di fede.
Attraverso le grandi testimonianze che l’umanità ha deposto nelle opere di cultura l’uomo e anche il presbitero può comprendere se stesso e gli altri a cui è mandato. La letteratura ha dato espressione linguistica all’amore e all’odio, ai sentimenti etici e a tutto quello che in generale forma noi stessi. E se non ci appropriassimo del suo grande patrimonio poco sapremmo di noi stessi. Dobbiamo pertanto esporci al testo per ricavarne una più ampia dimensione di noi.
Ancora: una preghiera che plasmi l’interiorità dell’uomo non può essere scissa dal pensare. Il termine ebraico che designa la preghiera è tefillah ossia “giudizio”, “pensiero in azione”. Pregare è pensare la propria vita e le proprie relazioni davanti a Dio per arrivare a vivere in obbedienza al volere e alla parola di Dio. Questa preghiera, così cosciente, diviene un vero e proprio atto di ordinamento della propria interiorità.
Un prete che sappia nutrire così la propria interiorità vedrà crescere, in sé, la propria saldezza e, nelle relazioni con le persone, la propria autorevolezza.
La preghiera del presbitero deve poi essere preghiera di intercessione.
Noi, cari amici, siamo pastori perché intercediamo. Intercedere ossia “fare un passo tra”, “interporsi” fra due parti, indicando così una compromissione attiva, un prendere sul serio la relazione con Dio, tanto quella con i fratelli, gli uomini.
Nell’intercessione noi esercitiamo il nostro ministero di pastori portando davanti a Dio i cristiani delle nostre comunità di cui abbiamo responsabilità e li riceviamo così nuovamente da Dio: nell’intercessione, il presbitero si dispone ad un’assunzione di responsabilità radicale nei confronti dei membri della comunità che gli è affidata. Lì le relazioni vengono purificate perché si fa regnare l’evangelo su tutte le situazioni di conflitto, di incomprensione, di tensione, di antipatia o diffidenza o di ostilità. L’intercessione ci porta non tanto a ricordare a Dio i bisogni degli uomini – Lui sa infatti ciò di cui abbiamo bisogno – ma porta noi ad aprirci al bisogno dell’altro facendone memoria davanti a Dio. L’intercessione, il pregare per gli altri è la custodia più efficace delle relazioni del presbitero. Nell’intercessione io porto l’altro davanti al Terzo che è il Signore mio e dell’altro. In quell’operazione spirituale il presbitero entra nella vita responsabile cristiana: “Nella piena solidarietà con gli uomini peccatori e bisognosi, essendo anche noi peccatori e bisognosi, facciamo un passo, entriamo in una situazione umana in comunione con Dio che in Cristo ha fatto il passo decisivo per la salvezza degli uomini” (Bianchi, Le parole della spiritualità).
L’intercessione è luogo di intelligenza evangelica dell’altro. Lì vediamo come la preghiera del presbitero si lasci plasmare dalla vita e dalle storie personali di coloro che fanno parte della sua comunità L’intercessione allena il presbitero alla duttilità, all’assunzione di responsabilità, ma anche alla custodia della sana e buona distanza nelle relazioni con le persone. Nell’intercessione il presbitero sperimenta che tra sé e i fedeli per cui vive e lavora che c’è in mezzo un altro, un terzo: Cristo!
Chiediamo dunque, in questo Giovedì Santo 2024, giorno in cui facciamo memoria dell’istituzione del sacerdozio ministeriale, di saper sempre ringraziare per la vocazione ricevuta e per il ministero affidatoci dal Signore che sono essenziali per la nostra preghiera per mantenere la fedeltà al Signore e per vivere appieno l’Eucaristia. Chiediamo di tenere sempre puntati nella preghiera gli occhi sul crocifisso-Risorto per essere sempre più conformi a Cristo stesso e con Lui essere capaci di leggere le situazioni di contraddizione e di fallimento che spesso incontriamo come occasioni per la sequela di Cristo. Con questo orizzonte interiore il presbitero potrà, con la sua semplice e quotidiana preghiera, crescere nella fede nelle sue varie fasi della vita, rendendo grazie per il passato, accettando gioiosamente il presente e dicendo sì al futuro. Certo che l’essenziale della fede è che si compia in lui la volontà di Dio. Amen.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina
* Filosofo tedesco