Omelia alla Santa Messa di Ordinazione Presbiterale di Don Stefano Moccia

Palestrina, Basilica Cattedrale di Sant’Agapito Martire, Venerdì 22 ottobre 2021

Carissimi fratelli e sorelle,

con gioia e trepidazione, in questa Memoria liturgica di San Giovanni Paolo II, partecipiamo all’ordinazione presbiterale di Stefano Moccia, dell’Associazione pubblica di diritto diocesano dei Figli del Divino Amore.

Un uomo che giunge al presbiterato non più giovanissimo – ha 44 anni – dopo un cammino di fede iniziato nella sua famiglia, ad Afragola (NA), nella comunità neocatecumenale da cui proviene e poi proseguito a Modena, a Medjugorie – nella famiglia dei Figli del Divino Amore –, qui a Palestrina, dove ha completato gli studi e presso l’Istituto Teologico Leoniano ha conseguendo il Baccalaureato in Teologia, divenendo poi diacono nel 2014 e servendo Dio presso alcune comunità parrocchiali.

In questo momento vorrei che a Stefano e a tutti noi, per comprendere il fatto di Chiesa che stiamo vivendo, parlassero il Vangelo che abbiamo ascoltato e San Giovanni Paolo II. In particolare vorrei che giungessero al suo e nostro cuore alcuni pensieri che il Santo Papa scrisse in occasione del suo 50° di ordinazione sacerdotale in un libro autobiografico che tutti, in particolare i preti e i seminaristi, dovrebbero leggere e che si intitola “Dono e Mistero”.

Scrive San Giovanni Paolo II che nello strato più profondo ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che supera infinitamente l’uomo. Un dono davanti al quale, come immagino stia per accadere a Stefano anche se da tanti anni attendeva questo momento, ci sentiamo come inadeguati.

Il Santo Papa ricordava che la vocazione è il mistero dell’elezione divina: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). “E nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne” (Eb 5,4). “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni” (Ger 1,5). Ed è quello che sta accadendo a te, caro Stefano.

Quando un uomo diventa prete si va a scavare tra le persone che ci hanno aiutato a scoprire la vocazione – è umano … – ci può essere la famiglia, per te in particolare la mamma tanto cattolica; la comunità neocatecumenale, quella di Madre Rosaria che hai incontrato e alla quale appartieni, i bravi sacerdoti che Dio ha messo sul tuo cammino, le varie comunità parrocchiali nelle quali hai abitato e hai cercato di servire come diacono … ma in realtà è Dio e solo Dio che per dono e mistero ti ha scelto e stasera ti manda attraverso l’imposizione delle mani del Vescovo, successore degli Apostoli, e per la sua preghiera consacratoria come prete nel mondo.

Da qui San Giovanni Paolo traeva una conclusione: quando celebriamo un giubileo sacerdotale ed io aggiungerei: una ordinazione o un momento particolare della nostra esistenza presbiterale, dobbiamo farlo con grande umiltà, consapevoli che Dio “ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia” (2 Tm 1,9).

Tutto ciò lo ha capito bene l’Apostolo Pietro di cui ci ha parlato il Vangelo.

Pietro, che pur avendo seguito Gesù fin dagli inizi, non si era mai, in fondo, consegnato a Lui. Anzi, pretendeva che Gesù si consegnasse a lui, Pietro! Ricordate quando nell’ultima cena, nel cenacolo, voleva rifiutarsi di farsi lavare i piedi da Gesù? Impedendogli in tal modo di rivelarsi come il Dio che ama l’uomo servendolo fino a dare la vita per lui? O quando – sempre Pietro – promette fedeltà assoluta a Gesù, di seguirlo ovunque, lo difende ad oltranza nell’orto degli ulivi, estrae la spada contro coloro che vengono a prendere il suo Maestro … ma poi poco dopo, davanti a una servetta del sommo sacerdote: lui, Pietro, questo pescatore rotto a tutte le fatiche, si mette a tremare, si confonde e davanti a quel semplice “mi pare …”, mi pare che il tuo dialetto sia come quello dei seguaci di Gesù, subito prende le distanze, finge di non conoscerlo e lo rinnega tre volte.

Ebbene dopo la Pasqua, Pietro ha compreso che ciò che è e sarà – e lo auguro anche a te caro Stefano – è e sarà soltanto per dono e mistero!

Il Risorto infatti gli apparirà e lui sarà segnato per sempre da quell’umiltà che sola sa accogliere l’amore di Dio che chiama alla sequela e manda.

Nel Vangelo di stasera Pietro torna ad essere chiamato con il nome degli inizi: “Simone di Giovanni”. Il suo volto non è più quello del discepolo fiero, che confida in ciò che lui sa e saprà fare, ma è il volto di uno che a causa dei suoi fallimenti e tradimenti ha compreso che per seguire il Signore Gesù, l’unico e vero Maestro, occorre umiltà. Occorre sapergli dire: portami dove vuoi Tu, conducimi dove vuoi Tu, io ti consegno il volante della mia vita! E così Gesù ricomincia a chiamarlo come chiama te stasera, caro Stefano, e ad infondergli una nuova vita, una nuova missione, con la forza della Pasqua.

Anche quando Gesù chiamò Simone di Giovanni per la prima volta, insieme al fratello Andrea, erano sulla riva del lago. Ora quel lago bagna i piedi di Simone di Giovanni con l’acqua della Pasqua e Gesù Risorto per tre volte gli pone una domanda. Una domanda che la traduzione non rende bene. Per due volte Gesù gli domanda se Simone lo ami. E Pietro gli risponde che gli è amico. Non si sente più all’altezza di essere uno che dice di amare un Dio che dopo essersi fatto uomo si dona per noi fino alla morte di croce e risorgendo ci dà la vita eterna. E ancor più non si sente di rispondere alla domanda che gli pone per la prima volta: “Mi ami più di costoro? Più degli altri?”. E così Gesù, davanti a questa nuova consapevolezza di Pietro gli affida la sua Chiesa: pasci i miei agnelli. Ossia prenditi cura dei più deboli, dei più fragili. Ora che hai compreso che anche tu sei un poveretto, ama i poveretti. Con la tua cenere sii cemento per loro. E poi, per una seconda volta, la stessa domanda e la stessa risposta. E Gesù gli affida da pascere – ossia sostenere, cibare con la Parola, l’Eucaristia, la vicinanza, la misericordia di Dio che anche tu, caro Don Stefano amministrerai nel sacramento della confessione senza trasformare mai il confessionale in una sala di tortura – le sue pecorelle. Ossia agnelli e pecore. Ossia tutti! Perché il prete, il Vescovo, il Papa … siamo per tutti: poveri e ricchi, sani e ammalati, giovani e anziani, “regolari” e “irregolari” … diciamo così. E siamo per tutti perché Cristo si è immolato per tutti, per tutti coloro che vorranno accogliere il suo Divino Amore. Ed infine la terza domanda. Gesù abbassa la richiesta. Dopo aver compreso che Pietro aveva capito che non poteva competere in amore con il suo Maestro, Gesù usa il linguaggio di Pietro. La terza domanda la dovremmo tradurre così: non più “mi ami” o indistintamente “mi vuoi bene?” … come le prime due … ma “mi sei amico?”. A quel punto, triste, come dobbiamo essere tutti quando comprendiamo che non possiamo amare Gesù come desidereremmo, Pietro si arrende: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti sono amico!”. Ma proprio per questo Gesù lo conferma: pasci le mie pecore. Stai con loro davanti, dietro e in mezzo … confonditi con loro, assumi il loro odore … e aiutami a portarle in quell’ovile la cui Porta sono Io: il Risorto!

Caro Stefano, all’inizio di questa Messa abbiamo invocato lo Spirito Santo e tra poco canteremo le litanie dei Santi mentre attenderai con trepidazione, steso con la faccia a terra sul pavimento, rivedendo tutta la tua vita passata come un film, il momento dell’imposizione delle mani. Sempre citando San Giovanni Paolo II, vivi quel momento come lo ha vissuto lui e tanti altri preti dopo di lui fino ad oggi: come segno della tua totale sottomissione di fronte alla maestà di Dio e contemporaneamente come segno della tua piena disponibilità all’azione dello Spirito Santo, che discenderà in te come artefice della consacrazione. Così come nella Santa Messa che tra poco celebrerai con me per la prima volta, lo Spirito Santo è l’artefice della transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, così nel sacramento dell’Ordine Egli è l’artefice della consacrazione presbiterale ed episcopale. Il tuo stenderti sul pavimento sia segno del tuo voler essere “pavimento” sul quale gli altri possano camminare per giungere là dove tu guiderai i loro passi. Un pavimento che come ogni pavimento sarà calpestato, dovrà conoscere e vivere la logica della croce se vorrà portare frutto, far sì che la sua missione conduca chi vi camminerà sopra all’Unico che salva.

Sii poi sempre uomo dell’Eucaristia e della Divina Misericordia.

Dell’Eucaristia – che celebrerai quotidianamente –. Ogni volta che lo farai ricordati che nel pane e nel vino consacrati non c’è soltanto qualcosa in sé da adorare ma l’amore di Dio che si da a noi da mangiare affinché tutti: sacerdoti e fedeli, preti e popolo santo di Dio, comprendiamo come tutti siamo chiamati ad essere nella Chiesa – che è fatta dall’Eucaristia –, sacrifici santi, viventi, che con Cristo, nello Spirito, si offrono al Padre per la salvezza del mondo.

Il mondo certamente difficile, il mondo di oggi, ma dal quale non possiamo né dobbiamo fuggire ma nel quale rimanere per ascoltarlo, per camminare con esso ed accompagnarlo con pazienza all’incontro con la Verità, con l’Unico che salva tramite la predicazione e ancor più con fatti di Vangelo. Il mondo che ha necessità di quella speranza che ha un solo nome: Gesù Cristo!

E in questo mondo non aver paura di proporti – certamente senza forzare gli animi – come ministro della Misericordia Divina. Nel servizio del confessionale, soprattutto in quel servizio, esercita la tua paternità spirituale, sii testimone dei grandi miracoli – sono sempre parole di San Giovanni Paolo II – che la misericordia divina opera nell’anima che accetta la grazia della conversione. Una Misericordia di Dio di cui innanzitutto ogni sacerdote a servizio dei fratelli dovrà fare egli stesso per primo esperienza attraverso la propria regolare confessione e la direzione spirituale.

Amministratore dei misteri divini, sii sempre speciale testimone dell’Invisibile nel mondo! Sii sempre a contatto con Dio affinché chi ti incontrerà sappia così anche lui incontrarsi con Colui che oggi ti chiama, ti consacra e ti manda.

C’è un’ultima dimensione che pensando a te, alla tua storia, a San Giovanni Paolo II, non posso non richiamare a te e a tutti i sacerdoti, le anime consacrate e ai fedeli qui presenti chiamati anche loro, in virtù del battesimo, al sacerdozio comune dei fedeli. È la dimensione mariana.

Maria ci conduce a Cristo a condizione che si viva il suo mistero in Cristo. Con Giovanni Paolo II auguro anche a te di vivere quel Totus tuus che ispirandosi a San Luigi Maria Grignion de Montfort, egli scelse come motto del suo episcopato e della sua vita. Come fu per il Papa che ci indicò la santità come strada alta della vita cristiana ordinaria, anche tu vivi quel “Sono tutto tuo – Maria – e tutto ciò che è mio è tuo. (…) Ti accolgo in tutto me stesso, offrimi il cuore tuo, Maria!”. Amen.

+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina