Omelia alla Santa Messa In Coena Domini

Palestrina, Cattedrale di Sant’Agapito Martire, Giovedì 18 aprile 2019

Carissimi fratelli e sorelle,

con questa Santa Messa diamo inizio al solenne Triduo Pasquale. Tre giorni nei quali, come se fosse un unico giorno, celebriamo l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio ministeriale; la realizzazione del dono profeticamente anticipato nell’Ultima Cena da Gesù di dare la vita per noi sulla croce nel Venerdì Santo durante il quale i nostri occhi e i nostri cuori guarderanno a Colui che è stato trafitto per noi e per tutti coloro che vorranno accogliere il Suo dono di amore. E infine, dopo il silenzio del Sabato Santo, celebreremo la grande Veglia Pasquale, durante la quale rinnoveremo la nostra fede nel Risorto e celebreremo la vittoria del Risorto sulla morte. Quella vittoria che sostanzia i sacramenti dell’iniziazione cristiana e l’Eucaristia che riceviamo la quale non è soltanto simbolo dell’amore di Gesù per noi ma la presenza reale di questo amore estremo, fino alla fine e che và anche al di là della fine terrena dell’uomo, che sostiene il cammino del cristiano in questa vita e gli assicura, ci assicura la vita eterna con Dio dopo la morte.

Celebriamo allora la prima tappa del Triduo.

Nel cenacolo di Gerusalemme Gesù celebra la Pasqua ebraica con i suoi.

E compie un gesto tipicamente riservato agli schiavi: lava i piedi ai suoi discepoli come ad anticiparci che vuol lavare i piedi a tutti noi, vuole servirci mettendo la sua vita a nostra disposizione e chiedendoci di fare altrettanto: “Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri”.

L’evangelista Giovanni, tuttavia, nel riportarci questo gesto tanto umile lo introduce con parole solenni dove tutto è pesato: “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugatoio e se lo cinse attorno alla vita”.

Gesù sa che è giunta la sua ora.

A questo sapere di Gesù, Giovanni contrappone il “non sapere” di Pietro e degli altri discepoli. “Quello che io faccio” – ossia il gesto di lavare i piedi ai suoi discepoli e al quale Pietro vorrebbe sottrarsi – “Quello che io faccio”, dice Gesù a Pietro, “tu ora non lo capisce; lo capirai dopo”.

In fondo, se ci pensiamo bene, anche noi facciamo fatica a capire e condividere quello che Gesù sa. Certo per noi è più facile capirlo perché la Chiesa in duemila anni di cristianesimo ci ha predicato la Risurrezione ma comprendere appieno il significato del gesto di Gesù di lavarci i piedi anche oggi fatichiamo a comprenderlo.

Ma leggiamo attentamente il Vangelo e cerchiamo di comprendere qualcosa.

Gesù si alza da tavola e depone le vesti e dopo aver lavato i piedi ai discepoli, le riprende di nuovo.

Sono gesti che ci invitano a guardare indietro e avanti.

A guardare indietro.

Giovanni utilizza nel suo Vangelo gli stessi vocaboli greci con i quali Gesù nel discorso del buon pastore, dichiara di deporre la propria vita nella morte per poi riprenderla di nuovo nella risurrezione (Gv 10,17).

Ma che ci invitano anche a guardare avanti. A quello che accadrà nella scena della croce, dove ritorna l’immagine delle vesti: “I soldati, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato” (Gv 19,23).

È una immagine da non trascurare soprattutto se la mettiamo in riferimento a quanto accadde nell’Ultima Cena. I soldati prendono le vesti di Gesù, gliele tolgono con violenza come si fa con ogni condannato. Ma l’evangelista Giovanni per dire questo “prendere” usa un termine greco – “lambano” – che significa più precisamente “accogliere”.

I soldati dunque mentre prendono le vesti di Gesù, in realtà le accolgono! Perché? Perché Gesù durante l’Ultima Cena, prima di lavarci i piedi, le ha già deposte liberamente e per amore nella logica del dono totale di sé per la nostra salvezza, per trasformare anche i nostri gesti di violenza, di odio, verso di Lui e verso i fratelli nei quali dobbiamo sempre vedere una sua immagine, in gesti con i quali egli consegna se stesso per donarci la vita.

Queste vesti, ci ha ricordato Giovanni nel Vangelo del Buon Pastore, sono simbolo della vita di Gesù. I soldati crocifiggendo Gesù non gli tolgono soltanto le vesti ma anche la vita. Eppure anche questo loro gesto violento diventa anch’esso un gesto di accoglienza: prendono le sue vesti ma in realtà accolgono quella vita che Gesù ha già offerto liberamente e per amore.

Ciò che Gesù dice e fa durante la Cena dà un significato nuovo, diverso alle parole e alle azioni che nei giorni successivi il primo Giovedì Santo della storia, Gesù subirà a causa degli uomini.

C’è ancora un altro piccolo dettaglio del racconto della Cena sul quale vorrei fermarmi.

A Pietro, che non vorrebbe farsi lavare i piedi, Gesù dice: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (13,8).

“Parte” nella Bibbia si riferisce alla parte di eredità che Dio dona a tutti i suoi figli.

Gesù lava i piedi a Pietro e a tutti noi per renderci partecipi di quell’eredità del Padre che è la vita eterna.

Lo stesso termine al plurale: “parti” torna anche quando i soldati “accolgono” le vesti di Gesù e poi ne fanno quattro “parti”, una per ciascun soldato.

E qui il discorso diventa importante, direi che mette i brividi. Pietro è un discepolo di Gesù che fatica a capire e seguire il Maestro, eppure Gesù gli lava i piedi perché abbia “parte” con Lui. Ma l’amore di Gesù non si ferma qui, va oltre. Depone le proprie vesti, la propria vita, perché anche i soldati ne abbiano una “parte”, ossia anche loro siano partecipi del dono di amore che Gesù compirà morendo e risorgendo per noi, perché nessuno si perda di quelli che il Padre gli ha dato …

Il Padre ci ha donati tutti a Gesù e Lui non vuol perdere nessuno: non vuol perdere Pietro e neppure i soldati che accogliendo una “parte” della sua veste in realtà accolgono l’eredità che Gesù è venuto a dare a tutti coloro che lo vorranno. Tutti, perfino i soldati che hanno spogliato Gesù delle sue vesti con violenza, potranno e possono – anche oggi – accogliere la Sua veste, la Sua vita, per avere parte all’eredità di tutti i figli di Dio che erano dispersi e che ora Gesù raduna nell’abbraccio aperto del Crocifisso per noi.

Questo è quello che Gesù sa. Che Pietro fatica a capire, che i soldati non capiscono e che anche noi facciamo fatica a comprendere. Amare, donarsi, rendere partecipi della vita di Dio anche coloro che lo osteggiano, che usano violenza contro di Lui, che lo offendono, che lo tradiscono …

Gesù sa, e noi dobbiamo fidarci di Lui.

Gesù sa quello che fa affinché nessuno di noi vada perduto ma abbia parte all’eredità del Padre.

A noi fidarci e poi accogliere l’ultimo invito che ci dà.

“Fate questo in memoria di me”, dice Gesù durante la Cena secondo il racconto di Paolo che abbiamo ascoltato nella seconda lettura.

Ossia anche noi, come Pietro, accogliamo l’amore di Gesù, lasciamo che ci lavi i piedi per avere parte con Lui: per diventare cioè memoria vivente di questo amore che perdona, guarisce, salva.

In queste parole: “Fate questo in memoria di me” c’è anche l’istituzione del sacerdozio ministeriale. Sarebbe ben riduttivo se pensassimo soltanto a un dover ripetere le parole dell’istituzione. Per tutti – preti e laici – “Fate questo in memoria di me” significa accettare la sua vita e con Lui e come Lui deporla a servizio dei fratelli, donarla a tutti per amore! Amen.

  + Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina