Tivoli, Cattedrale di San Lorenzo Martire, sabato 26 marzo 2022
IV Domenica di Quaresima (C)
“In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!”
Cari fratelli e sorelle, è questa l’esortazione dell’Apostolo Paolo che stasera ben si addice ad uno dei momenti che stiamo celebrando in questa liturgia: la benedizione della nuova Cattedra Episcopale. Questo seggio che stasera abbiamo benedetto e sul quale siederò io ed i miei successori per compiere il servizio di ambasciatori di Cristo, per esortare e supplicare tutti, in Suo nome, a lasciarsi riconciliare con Dio! La benedizione della Cattedra del Vescovo che dà nome alla chiesa che la ospita e sulla quale egli siede per insegnare ossia proclamare la Parola di Dio. Non tanto per “insegnare una dottrina” ma per proclamare e spiegare quella Parola di Dio che chiama alla fede, che ci raduna insieme e ci fa diventare un popolo. Ossia un insieme di persone che ha in comune una storia, una legge, un compito da realizzare nella storia. Proprio come il popolo di Dio che è un insieme di persone che hanno in comune una storia, cioè la storia della salvezza, le grandi opere che Dio ha compiuto per lui, a suo favore. Una legge – la legge di Dio –. Una missione da realizzare nella storia. E tutto questo lo dona ai credenti la Parola di Dio annunciata autorevolmente dal Vescovo da questo luogo liturgico. È infatti primario compito del Vescovo: radunare nel nome del Signore il popolo di Dio affinché si lasci riconciliare con Lui. La Cattedra dunque è importante perché è segno di un insegnamento autorevole, robusto come robusta è la fattura della Cattedra stessa, un insegnamento che non viene solo dalla scienza del predicatore, ma dalla “manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (1 Cor 2,4).
E quale è l’essenza di questo insegnamento? Lo abbiamo già accennato.
“Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!”.
Mi piace vedere posizionata la Cattedra in alto, in alto perché il Vescovo è colui che è chiamato a vigilare sul popolo affidatogli ma a vigilare non per reprimere, ma per rapportarsi con il suo popolo come il padre misericordioso della parabola che in questa domenica la Liturgia ci ha fatto ascoltare.
E questo, logicamente, non può farlo da solo ma insieme ai suoi presbiteri, ai diaconi, i catechisti, i credenti e tra loro anche con gli accoliti ai quali “è affidato il compito – sono parole del rito di istituzione dei medesimi – di aiutare i presbiteri e i diaconi nello svolgimento delle loro funzioni, e come ministri straordinari dell’Eucaristia a distribuirla a tutti i fedeli, anche infermi”.
Il Vangelo di stasera ci aiuta a comprendere in cosa consista questo ministero.
C’è un padre e due figli: uno più giovane e l’altro è “primogenito”.
Il più giovane si distacca dal padre, non si conoscono bene i motivi ma tant’è. Si allontana dalla casa paterna. Un allontanamento che è sempre stato letto come progressiva rottura non soltanto delle relazioni con la propria famiglia, con le proprie radici ma anche con Dio. Così che questo figlio si riduce ad allevare i porci per sopravvivere dopo aver usato male la propria libertà, i propri averi che il padre gli diede rispettandolo profondamente anche se forse poteva scegliersi un buon avvocato e non darglieli.
Giunto al fondo della disperazione, per motivi materiali – mosso dalla fame! poiché si era ridotto a mangiare solo le carrube che venivano date ai porci – più che mosso da motivi religiosi, il figlio decide di tornare. Mosso alla conversione più dal bisogno che da un incontro con Dio, dopo aver sperimentato il vuoto a cui porta la vita dissoluta che promette molto e però non dà nulla, il figlio minore decide di tornare dal padre.
E il padre dove era? Era ad aspettarlo.
Lo vede infatti arrivare da lontano. Mi piace pensarlo come seduto su una Cattedra dalla quale probabilmente aveva insegnato tutto ciò che poteva al figlio, poi lo aveva lasciato libero di andarsene, ma sulla quale tornava ogni giorno per vedere se mai quel figlio tornasse. Lo vede arrivare, commosso gli va incontro, gli si getta al collo, lo bacia, lo riveste con un abito di festa, gli mette l’anello al dito, i sandali ai piedi e ordina un banchetto. Il padre – ci verrebbe da dire – non è moderato. Probabilmente noi davanti a un figlio di tal genere che torna noi avremmo chiarito i patti prima di farlo entrare, gli avremmo proposto di rientrare per la porta di servizio ed espiare lo sfregio fatto all’autorità paterna. Ritorni – gli avremmo detto … – ma senza reclamare diritti, ecc. E invece il padre si lascia sopraffare dalla gioia, dalla misericordia, dall’amore per questo figlio peccatore impedendogli di umiliarsi, di pronunciare quel discorso di richiesta di perdono al padre che il figlio si era già preparato.
Ora, senza cadere nell’utopia, questo discorso vorrei però che giungesse anche a voi che state per essere istituiti accoliti, a voi cristiani che frequentate regolarmente la comunità cristiana, a voi diaconi e presbiteri ed anche a me Vescovo che da questa Cattedra dovrei insegnarvi – … non so con quale successo, ma tento di provarci con gli stessi atteggiamenti del padre misericordioso – proprio questo stile. Vorrei dunque domandarvi: riusciamo ad accogliere chi dopo essersi allontanato torna, si riaffaccia, nelle nostre comunità?
Come vorrei che voi che state per diventare accoliti, i preti, i diaconi, i catechisti, i componenti della comunità cristiana, avessero questi sentimenti di gioia, di accoglienza, di misericordia per quanti tornano. E come vorrei che fossero felici di preparare l’altare con cura, ossia il banchetto della grande festa dove è Cristo stesso che offre il suo amore, il suo perdono, la sua vita per noi e per tutti coloro che tornano a Lui! E questo perché anche noi siamo stati e saremo sempre accolti dalla misericordia del Padre ogni volta che ci siamo allontanati o ci dovessimo allontanare da Lui e pentiti decidessimo di tornare.
Come vorrei che fossimo capaci di attendere chi si è allontanato, stare di vedetta ogni giorno per guardare all’orizzonte se torna, e dopo aver rispettato i suoi tempi, al momento del ritorno, accoglierlo con sentimenti di gratuità, gioia, esultanza!
Cari amici che vi preparate al diaconato come vorrei che diveniste sempre più braccia che escono dalla Chiesa per accogliere quanti vi tornano per partecipare a quella festa che è il Risorto che si dona per noi nella sua Parola, nell’Eucaristia e negli altri sacramenti ai quali dovete condurre i fratelli.
Ma al termine del Vangelo c’è poi la comparsa del figlio primogenito.
Quello che forse ci assomiglia un po’ di più. Che è sempre stato fedele ai suoi compiti quotidiani e che sentendo che il padre ha organizzato una festa per il fratello dissoluto si sente indignato, si impunta e non vuole entrare in casa.
E anche qui è ancora il padre che esce, che lo va a cercare. Che si pone in uscita.
Il padre lo ascolta: ascolta l’elencazione dei meriti che questo figlio bravo fa, ascolta i demeriti del figlio dissoluto che il figlio maggiore elenca al padre quasi sbattendoglieli in faccia e poi ascolta il rimprovero: “e tu, per questo figlio dissoluto – parafrasando gli dice – fai pure una festa!” …
A quel punto il padre risponde con una parola: “figlio!” “Tu sei sempre con me!”. Mettiti pertanto su un altro livello.
Mentre il figlio maggiore aveva detto al padre “questo tuo figlio …” ha fatto questo, e questo e quell’altro ancora … il padre risponde: “questo tuo fratello!”.
Vedete dietro l’atteggiamento del figlio maggiore c’è l’atteggiamento anche di noi quando tante volte, solo perché caso mai stiamo facendo un cammino verso il diaconato, o siamo ministri di Dio, ci sentiamo migliori degli altri e viviamo le relazioni tra noi e gli altri e anche tra noi e Dio non gratuitamente ma sempre pensando a una retribuzione. Faccio questo e ricevo quest’altro … Do ut des …
L’evangelista Luca ricorda che la giustizia divina e umana invocata dal figlio maggiore dicono innanzitutto relazione, rapporto con “l’altro”, prima che rapporto con un codice di comportamento. La fratellanza produce differenziazione e una comunità di fratelli non può negare l’alterità, anzi la esige. L’altro rimane fratello in quanto altro da me.
Il padre invita dunque il figlio maggiore ad entrare alla festa della gratuità. Attenzione, non glielo impone, lo invita … Lo invita a lasciare lo scranno del giudizio per porsi sul trono della misericordia, a non allontanarsi – disgustato e sprezzante – nel recinto dei giusti ma a farsi prossimo del peccatore e del dissoluto perché è e rimane sempre fratello!
Non si sa cosa abbia poi fatto il fratello maggiore. Il Vangelo non ce lo dice. Non sappiamo se sarà o meno entrato alla festa.
Questa indeterminatezza pone anche noi davanti a una scelta: o accogliamo l’invito a lasciarci riconciliare con Cristo e quindi prolungare ovunque questo invito alla gioia, invito alla festa che ha nell’Eucaristia il suo piatto forte, il suo centro poiché è il Risorto e vivo che ci salva svuotandosi della sua divinità, ponendosi a nostro servizio per poi ricondurci alla dimensione della divinità, alla eternità. Oppure continuiamo a pensare a noi stessi, al nostro perbenismo esagerato, ai nostri diritti, senza mai pensare che se sbagliamo e lo riconosciamo c’è un terzo figlio … Gesù, che è già morto e risorto per noi, che si è già fatto carico dei nostri peccati e, se siamo veri con Lui, ci attende per usarci misericordia e reintrodurci in quella festa dove Lui stesso si fa cibo per noi chiamandoci tutti a vivere di Lui e per Lui e quindi ad essere fratelli di tutti in quel popolo adunato intorno al Vescovo, successore degli Apostoli, che è la Chiesa.
A noi la scelta. Auguro che sia quella del lasciarci coinvolgere nella festa del Padre misericordioso. Amen.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina