Palestrina, Cattedrale di Sant’Agapito Martire, Martedì 10 dicembre 2024
Cari docenti ed alunni della nostra Scuola diocesana di teologia.
Anche quest’anno ci ritroviamo in prossimità del Santo Natale nel martedì della II settimana di Avvento.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato un annuncio sulla città di Gerusalemme, una città, che nelle alterne vicende della storia, ha sempre personificato la gioia, la crisi, la frustrazione e la speranza di un popolo.
Nel periodo più buio e desolato della sua storia, come fu quello dell’esilio, le rovine di Gerusalemme rappresentarono più di ogni altro segno il popolo di Dio sfiduciato e in crisi profonda di identità e di fede. Nel libro delle Lamentazioni che descriveva Gerusalemme proprio in quel periodo la si rappresenta come una “signora” diventata vedova, che piange amaramente nella notte, senza che nessuno la consoli. Gerusalemme senza Dio è rimasta sola e non ha nessuno che la consoli. Così è l’esperienza della nostra umanità quando perde Dio. Prevale solo il dolore, la depressione, la morte della speranza, la crisi sembra insuperabile …
All’improvviso, però, nel silenzio e nel deserto di una strada che pare senza uscita risuona la voce che annuncia la fine di un incubo: “Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio – parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta (…)”. Basta, pare dire questa voce che grida: “Nel deserto preparate la via del Signore!”.
Diversi sono gli elementi che colpiscono in questo brano che apre il Deuteroisaia: la ripetizione del verbo “consolare” e insieme le espressioni “il mio popolo” e “il vostro Dio”. Questo significa che la consolazione di cui si parla, e che annuncia la grande svolta, viene ricondotta al cuore della fede di Israele, al patto di alleanza, in cui il Signore ha preso l’impegno di essere “il Dio del suo popolo”.
Da qui scaturisce anche la bellissima immagine di parlare al cuore di Gerusalemme che si potrebbe anche tradurre come “parlare sul cuore di Gerusalemme” una immagine di tenerezza che nella Bibbia viene usata quando in un rapporto tra due partner uno si trova in una situazione di particolare angustia, di pericolo, di colpa e l’altro gli appoggia la testa sul petto nel tentativo di convincerlo a ritornare o a riprendere fiducia.
Dio dunque non abbandona il suo popolo. Abbandona le armi del castigo, della durezza e della vendetta e usa le armi della tenerezza per chiamare il suo popolo desolato, distrutto, disorientato, verso di sé.
Usa la logica che ci è stata descritta anche nel Vangelo di stasera, ossia quella del buon Pastore.
Un pastore un po’ imprudente se dovessimo giudicarlo umanamente: per andare a recuperare la pecora smarrita mette a rischio la perdita delle altre 99. Inoltre la pecora smarrita se ne è andata dal gregge perché ha disobbedito, orgogliosa non ha ascoltato la voce del pastore e si è smarrita. Il Pastore poteva dunque dire: bè se l’è meritata … vada dove le pare, io sto con le mie 99 … E invece no, è impossibile, perché il Pastore è Dio che è guidato da una logica ben diversa dalla nostra ed è la logica del cuore, la logica dell’amore che è oblio di sé, libertà dalla tirannia del proprio io: è prendersi cura dell’amato, servirlo piuttosto che servirsene. L’amore mette a rischio tutto accetta anche il rischio di perdersi purché il perduto si ritrovi, perché gli sta a cuore soltanto che l’amato fiorisca.
È questo il mistero che celebreremo nel Natale: il mistero di un Dio che amandoci tanto non si ferma a considerare il perché siamo ruderi – come Gerusalemme – gente che ha smarrito il senso del vivere e del morire, che ha perso la speranza. Ma amandoci viene a consolarci, a recuperarci al suo amore e così, contemporaneamente, chiede anche a noi di farci suoi cooperatori annunciando con le parole e con le opere la consolazione che Lui e solo Lui è.
Vengo così a voi: perché studiare la teologia?
E ai vostri docenti: perché insegnarla?
Per allargare la propria erudizione? Per fare sfoggio di una certa cultura teologica?
Direi di no, ma direi che il primo motivo è per lasciarci consolare, amare, recuperare da quanto ci viene insegnato e da quanto apprendiamo nello studio della teologia per poi consolare, riuscire a sentirci dei mandati a recuperare gli smarriti.
Ma per consolare occorre sentirsi consolati dall’unico Consolatore.
Questo vale per i docenti e per gli alunni.
Sentirsi delle pecore perdute ma amate profondamente da Dio.
Certamente, il catechista che insegna la dottrina ai bambini deve trasmettere una dottrina solida e non le eventuali novità teologiche. Il teologo, invece, deve ricercare, andare oltre e poi sapere dove il Magistero lo ferma. E la Scuola di teologia deve trasmettere questo. Innanzitutto presumere che la sana dottrina sia conosciuta e poi tentare di andare oltre per comprendere fin dove si possa arrivare per consolare tutti, tutti, tutti. Per portare l’annuncio del Vangelo a coloro che consideriamo pecore perdute.
Vorrei tanto che nella nostra Scuola si rimanesse sempre in ascolto della Parola di Dio, del sensus fidei del popolo di Dio, del Magistero e dei carismi e nel discernimento dei segni dei tempi affinché la Tradizione che Benedetto XVI definiva come “il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti” giungesse ad irrigare diverse terre, alimentare diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. Così che il Vangelo continuasse ad incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, anche del nostro piccolo mondo tiburtino e prenestino, in maniera sempre nuova al fine di consolare, di consolare sempre ed ancora i tanti che si sono allontanati dalla fede.
Per questo impegnativo lavoro mi raccomando che possiate lavorare insieme: docenti ed alunni in una scuola che divenga non soltanto un ripetersi di nozioni ma un cercare di trovare le vie per portare Dio all’uomo di oggi.
Consolate, dunque, consolate e andate a recuperare ogni pecora perduta che incontrate nel cammino della vostra vita. E sentitevi voi, innanzitutto, i primi che sono stati recuperati dal Buon Pastore e consolati, amati, perdonati.
Penetrando sempre più nel mistero della Sua consolazione sperimenterete gioia e la vostra gioia sarà diffusiva e capace di dare fuoco al mondo. Amen.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina