San Vittorino Romano, Santuario di Nostra Signora di Fatima, Mercoledì 2 febbraio 2022
Carissime consacrate e consacrati,
anche quest’anno la pandemia non ci permette di incontrarci insieme ai tanti sacerdoti, diaconi, fedeli laici che vi stimano ed apprezzano in questa Festa della Presentazione di Gesù al Tempio e XXVI Giornata Mondiale della Vita Consacrata.
Ci incontriamo dunque tra noi, intorno all’altare, sapendo che in tutta la Chiesa oggi si prega per le anime consacrate, e noi preghiamo gli uni per gli altri chiedendo a Dio il dono di saperlo sempre accogliere nella fede e testimoniare al mondo, domandandogli il dono di numerose e sante vocazioni alla vita consacrata e pregando a nostra volta per il mondo intero a cui siamo mandati per illuminarlo come ci hanno richiamato alla mente le luci che abbiamo tenuto tra le mani all’inizio di questa celebrazione.
Prima di proseguire, però, mi sento oggi in dovere di invitare tutti voi a pregare per le diverse religiose e religiosi che in questo ultimo anno, anche a causa del Covid, hanno terminato il loro passaggio in questo mondo. E invitarvi alla preghiera per quanti – consacrati e consacrate – quest’anno celebrano tra voi particolari anniversari. Un ricordo carico di affetto giunga al caro Padre Giovanni Bonini degli Oblati di Maria Vergine che reggono questo Santuario e che il 13 gennaio scorso ha raggiunto la bellezza dei 100 anni di vita!
La vita. Dono preziosissimo che la Festa di oggi ci invita a percorrere con fede, speranza e capacità di irraggiare e diffondere fede e speranza nella nostra “epoca cambiata”.
La Festa della Presentazione al Tempio di Gesù è infatti una opportunità forte per riflettere sulla nostra vita e vocazione di anime consacrate.
Maria e Giuseppe, obbedienti alla Legge, dopo quaranta giorni dalla nascita di Gesù lo presentano al Tempio. Entra nel Tempio un Dio che si è fatto uomo, un Messia atteso ma che si presenta come un piccolo bambino affinché chi lo attende con fede come Simeone e Anna lo possano riconoscere, accogliere, benedire perché in Lui riconoscono che Dio è stato fedele alle Sue promesse di bene e di salvezza per l’umanità. Una salvezza che passerà per la croce, come avrebbe profetizzato Anna a Maria sua Madre, ma che sarà salvezza eterna e perfetta.
Il Brano evangelico ci offrirebbe tanti spunti di riflessione. Mi fermo a tre:
- La nostra vita che in un passato più o meno lontano abbiamo consacrato – ossia “separato per” – è anche oggi, come fu per Simeone e Anna, in attesa del Messia? È, in altre parole, una vita di fede?
Mi hanno sempre colpito queste due figure: Simeone e Anna che nonostante la loro età hanno continuato a sperare. Hanno vissuto fidandosi delle promesse di Dio. In queste vite lunghe, cariche di anni, sicuramente provate … – Anna era una vedova e sappiamo che ai tempi di Gesù le vedove e gli orfani erano tra i più poveri dei poveri, dei senza diritti, persone senza chi le difendesse … – hanno avuto fede nelle promesse di Dio: “Ecco, io manderò il mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate” e così sono state esaudite. Hanno incontrato il Dio che attendevano.
Vorrei che ci domandassimo anche noi, qui, stasera: ma noi viviamo come Simeone e Anna in attesa dello Sposo a cui abbiamo dato formalmente tutto con i voti di povertà, castità e obbedienza, rispondendo ad una chiamata a consacrarci a Lui, a dare tutta la nostra vita a Lui ma che spesso trascuriamo pur essendo formalmente rispettosi delle nostre costituzioni, presenti alla preghiera in coro, ma senza slancio, quasi “abituati” a Lui e così più preoccupati di difendere le strutture che possediamo, più preoccupati di sopravvivere che di vivere e sappiamo che viviamo veramente soltanto quando ci sottoponiamo all’azione dello Spirito, quando ci lasciamo interrogare dalla Parola di Dio, quando viviamo una vita sacramentale piena, quando ci apriamo agli altri sia che siano i nostri confratelli o consorelle di comunità, sia che sia la nostra Chiesa diocesana, o quella universale o gli uomini e le donne che indistintamente vivono come noi in questa epoca così bisognosa di Dio e che attende dei testimoni credibili, capaci di vivere “in uscita” ma ricchi di quella fede che richiede un incontro personale tra me e Dio, tra Dio e me come fu per Simeone e Anna?
- La nostra vita, poi, è capace di speranza?
Dio si è incarnato in un piccolo bambino: Gesù. E questo bambino ha dato gioia a Simeone e Anna che attendevano la salvezza di Israele. In Lui vedevano il futuro. Simeone e Anna amavano il loro popolo e attendevano il Messia che doveva venire. Vedendolo bambino e riconoscendolo, mossi dallo Spirito Santo, in quel bambino intravidero anche tutte le vie di speranza che Egli portava. Non capita anche a noi, davanti a un bambino, di pensare a cosa sarà della sua vita? Non ci dà forse gioia un bambino perché vediamo che nonostante tutto la vita continua? Per chi è vecchio le possibilità di sperare sono limitate rispetto a chi è bambino. Ebbene Gesù mostrandosi bambino a chi lo attendeva con fede pare dire che in Lui tutte le speranze sono realizzate, che dando fiducia a Lui, credendo in Lui, abbracciandolo ossia divenendo come un tutt’uno nella fede con Lui, anche noi, nonostante l’età, possiamo sempre sperare. Sperare nel futuro eterno che ci ha promesso con la sua Pasqua ma anche sperare che ogni nostro giorno sia bello, importante, un vero dono per noi e per quanti incontriamo.
Care sorelle e fratelli diveniamo donne e uomini di speranza! Cerchiamo di non invecchiare precocemente nello spirito. Invecchiamo infatti quando non abbracciamo più la fonte della speranza e ci riduciamo a constatare con cinismo e realismo ciò che non va. Certamente occorre guardare con realismo e senza ingenuità la vita che ci circonda, le situazioni …, ma occorre avere anche speranza! La speranza che sa farci divenire anche creativi, che ci porta a non ripetere quanto facevamo in passato con altri numeri, altre età medie nei nostri istituti. Sperare non vuol dire sperare che tutto torni come prima. La storia va avanti. Se prima avevamo vocazioni, strutture, mezzi, stili di apostolato possibili in un’epoca che era tutta culturalmente cristiana, oggi questo non è più. Ma dobbiamo sperare ugualmente perché Dio è fedele alle sue promesse, è fedele alla promessa di aver misericordia e compassione di noi. E noi dobbiamo sempre sperare pur sapendo che Egli potrà scegliere anche altre strade per realizzare ciò che noi ancora speriamo. Tutto ciò ci invita ad aver molta più fiducia nella Provvidenza. Quante volte ne parliamo … ma ci fidiamo veramente della Provvidenza o la vediamo solo dove vogliamo o con questa parola camuffiamo tutto ciò che vogliamo noi e non Dio?
- Ed infine: la nostra vita è canto per quel Dio che la sazia e rende sempre giovane e quindi è una vita di testimonianza?
Simeone si mise a cantare e lodare Dio per il Messia atteso, incontrato, che aveva ormai saziato la sua vita per cui ora essa poteva anche terminare. Simeone si mise a cantare e lodare Dio perché i suoi occhi avevano visto la Sua salvezza, preparata da Dio stesso davanti a tutti i popoli: luce per rivelarsi in Cristo alle genti!
E noi? Come cantiamo e lodiamo Dio, come cantiamo e lodiamo per questa luce che è Gesù e che oggi nel simbolo dei ceri accesi desideriamo anche noi tenere tra le mani, farci scaldare dall’amore che reca al mondo e lo fa sperare anche in questo momento complesso dell’umanità? E come collaboriamo con Lui affinché la Sua luce giunga a tutte le genti?
Sant’Agostino commentando il Salmo 149 che invita a cantare un canto nuovo, specifica che è l’incontro con l’amore che fa cantare. Ed aggiunge: “Ecco, tu dici, io canto. Tu canti, certo, lo sento che canti. Ma bada che la tua vita non abbia a testimoniare contro la tua voce”.
Oggi direi che occorre essere uomini e donne di preghiera, di ascolto della Parola di Dio, di vita sacramentale, di speranza perché sappiamo che Dio non viene meno alle sue promesse ma è giunto il momento – qualora non lo avessimo ancora compreso – di rompere i nostri sacri recinti e pur consacrati – ossia tutti per Dio – insieme essere anche tutti per gli uomini e le donne del nostro tempo con le loro fragilità, con i loro grandi problemi famigliari, di identità, di salute, di povertà, di dipendenze, di lavoro, di mobilità … e potrei continuare … Non possiamo più evangelizzare senza rimetterci in discussione e cantare al mondo con la nostra vita un canto nuovo che non sono parole ma canto d’amore che viene dal cuore che percepisce di essere amato. E così non ci è più permesso di preoccuparci più di noi stessi, delle nostre strutture da mantenere, che delle persone, dei giovani, dei ragazzi che fuori vanno cercando l’incontro con l’Unico che può dare significato alla vita anche senza esserne consapevoli e che può far cantare anche a loro il canto nuovo di quanti si sono sentiti amati da Dio.
E per questa evangelizzazione non servono né eventi, né parole, ma serve una condotta santa. Serve sinodalità ossia capacità di camminare insieme con Cristo e dietro Cristo: unico fondatore e Maestro per le nostre vite. Serve empatia con gli uomini e le donne del nostro tempo, così come sono, per iniziare con loro un cammino, un processo che caso mai lentamente li porti all’incontro che cambia e salva la vita. Empatia che nasce dall’ascolto attento di ciascuno. Ormai non possiamo più “ascoltare all’ingrosso”, ogni uomo e ogni donna, ogni adulto e ogni giovane, ogni ragazzo e bambino, è un caso, è un mondo a sé. Paradossale, nell’epoca della globalizzazione, ma reale … E allora, insieme ai pastori, ai laici, a consacrati e consacrate di altre comunità, anche con altri carismi occorre che ci mettiamo a lavorare maggiormente insieme non guardando più di tanto a noi e alle nostre storie e strutture o anche alle nostre simpatie o antipatie, ma guardando al mondo e mettendo anche le nostre strutture a servizio pure gratuito – qualora occorresse – dei più poveri, degli esclusi, di chi cerca nei vostri cuori, nei nostri cuori una casa, un tempio dove possa realizzarsi l’incontro tra l’uomo e Dio.
Per questo cammino sinodale occorre vivere la povertà vera. Che non è mettere da parte, risparmiare per la vecchiaia o per avere ingenti somme alienando caso mai strutture che abbiamo realizzato nel tempo anche con il contributo dei fedeli che ora bussano alle nostre porte. Questa si chiamerebbe “avidità”. Bensì siamo chiamati a vivere la povertà che ci fa essere liberi dal “si è sempre fatto così” permettendoci di ripensarci nel contesto odierno e liberi dalle cose che Dio ci ha donato e ci dona per dare fede e speranza all’uomo acciaccato di oggi, per attrezzare tanti “ospedali da campo” là ove l’uomo vive e soffre e continuare a far lodare, sperare, cantare, camminare nella storia quell’umanità alla quale Dio ci ha mandati, ci manda e ci manderà fino all’ultimo istante di questa nostra vita terrena. È quanto auguro a voi e a me in questa Giornata. Amen.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina