Genazzano, Parrocchia di Santa Maria del Buon Consiglio, Domenica 9 febbraio 2020
Carissimi fratelli e sorelle,
sono lieto di celebrare con voi la Festa del primo Parroco beatificato nella Chiesa e che fu Parroco di questa Parrocchia dal 1826 al 1840: il Beato Stefano Bellesini dell’Ordine di Sant’Agostino!
Probabilmente tutti conoscete la sua vita ma vale la pena ricordarla se pur brevemente.
Nato a Trento nel 1774, a 18 anni vestì l’abito agostiniano e nel 1797 fu ordinato sacerdote. Visse nel Convento di San Marco fino al 1809 quando, a causa delle soppressioni napoleoniche il suo convento fu chiuso.
Egli tornò così in famiglia ma continuò ad operare a favore dei ragazzi aprendo in casa sua una scuola gratuita soprattutto per i più poveri. Fece talmente bene che l’autorità civile lo nominò Ispettore Generale delle Scuole del Trentino ma nonostante ciò, appena gli fu possibile rientrare nella vita religiosa, lasciò la sua città di Trento – dove il Convento non poteva ancora riaprire – per recarsi a Bologna, nello Stato Pontificio dove i conventi avevano ripreso vita. Rinunciò quindi alla carriera di insegnante e Ispettore Generale pur di rimanere fedele alla sua vocazione religiosa. Richiamato a Roma dal suo Padre Generale fu Maestro dei Novizi e poi nel 1826 fu mandato qui, a Genazzano, dove visse da Parroco tutto dedito alla sua gente con una particolare predilezione per i fanciulli e i poveri. Scoppiata la peste nel 1840 non fuggì ma rimase insieme alla sua gente, rimase vicino per curarli, aiutarli e così anch’egli fu contagiato e morì assistendo i suoi parrocchiani.
Il Beato Stefano Bellesini insegna a tutti noi come dobbiamo essere cristiani.
Lo insegna a me Vescovo, lo insegna ai sacerdoti e ai Parroci in particolare, lo insegna a tutti coloro che desiderano non soltanto dirsi cristiani o preti o Vescovi ma esserlo veramente condividendo la passione per l’uomo, per tutto l’uomo e per tutti gli uomini a partire dai più poveri e disagiati, dai ragazzi – che anche oggi, come ieri, sono le vittime più fragili e vulnerabili di una carenza educativa alla vita e alla fede che caratterizza la nostra epoca – ai poveri, agli ammalati, a quanti non hanno nulla da darci e si affidano a noi Pastori e comunità cristiana chiamati, come ci ha ricordato il Vangelo di questa domenica, a far risplendere la nostra luce – che è Cristo! – attraverso le nostre opere buone affinché chi ci veda si senta attratto dal nostro essere comunità, Chiesa riflesso della Luce delle Genti: Cristo. Una luce che deve risplendere non perché siamo migliori degli altri ma perché pur riconoscendo le nostre fragilità e povertà ci abbandoniamo totalmente al Dio di Gesù Cristo e con i fatti più che con le parole mostriamo a tutti come sia bello e conveniente seguire Lui, appartenere a Lui, suscitando così in chi ci vede il desiderio di appartenere a Cristo e alla sua Chiesa.
Per sviluppare questo concetto mi fermo sulla prima lettura e poi nuovamente tornerò al Vangelo.
Il brano del profeta Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura è tratto dal Capitolo 58 dove c’è come una contrapposizione tra quanto il popolo pensa di essere e quanto Dio pensa del suo popolo.
A uno sguardo superficiale i fedeli sembrano bravissimi: pieni di buoni sentimenti, desiderosi di conoscere le vie del Signore e volerlo vicino. Vanno costantemente al santuario e praticano anche il digiuno. Ma davanti a tanta apparente buona volontà, Dio sembra rimanere insensibile: “Perché digiunare se tu non lo vedi, mortificarci se tu non lo sai?” (Is 58,3). In altre parole Dio non vuole dei cristiani di facciata ma vuole una religiosità autentica. Se tu preghi anche tutto il giorno, se vai a Messa alla domenica, sei anche religioso, prete, Vescovo, suora … un parrocchiano perfetto … ma non ti impegni per i poveri che sono coloro in cui dobbiamo vedere Cristo, sei un cristiano di facciata ma non certo come il Beato Stefano che oggi chiede a tutti noi, come un buon vecchio Parroco: non amate Dio solo a parole o con qualche bel rito, ma con i fatti come io ho amato più che ho potuto certamente rimanendo fedele alla mia vocazione religiosa e sacerdotale ma insieme anche accudendo all’educazione dei ragazzi, dei poveri e degli appestati … Io che provenivo da una famiglia benestante – pare dirci – ho scelto di pormi a servizio dei poveri di cultura, di educazione, di mezzi e di salute e come Pastore buono ho condiviso la sorte dei miei parrocchiani morendo di peste come loro.
Cari amici un grande Santo, Giovanni Crisostomo, ha scritto una pagina che ci mette in crisi commentando il Vangelo di Matteo ma che dobbiamo ascoltare proprio perché in questa festa dobbiamo tornare tutti a desiderare di vivere l’essenza del cristianesimo. Scrive: “La chiesa non è un’oreficeria, né una zecca … Non era d’argento quella tavola né d’oro il calice con cui Cristo diede ai suoi discepoli il suo sangue … Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non tollerare che egli sia ignudo, dopo averlo ornato qui in chiesa con stoffe di seta, non permettere che egli fuori muoia di freddo per la nudità … Quale vantaggio può avere Cristo se la sua mensa è coperta di vasi d’oro, mentre egli stesso muore di fame? Prima dagli da mangiare, poi ti occuperai anche di adornare la sua mensa. Gli offri un calice d’oro e non gli dai un bicchiere d’acqua fresca? … Mentre adorni la casa, non disprezzare il fratello che è nell’afflizione; egli, infatti, è un tempio assai più prezioso dell’altro”.
Il Beato Stefano sicuramente non avrà trascurato il decoro della chiesa, di questa parrocchia ma certamente ha dato la precedenza al culto in quel tempio fatto di quelle pietre vive che sono gli uomini e che noi oggi, alla sua scuola, desideriamo rinnovare l’impegno ad amare e servire.
In questo modo – e qui torno al Vangelo – noi saremo veramente per tutti sale della terra e luce del mondo.
Attenzione: il Vangelo di Matteo aveva appena descritto le beatitudini che sono le caratteristiche di Cristo e che devono essere anche le nostre e ci raccomanda di viverle insieme. Dice voi siete … sale … luce … Voi non tu. Cioè noi insieme, noi chiesa, comunità parrocchiale, diocesana, dobbiamo essere sale e luce del mondo!
Dobbiamo essere come il sale che anticamente serviva per conservare gli alimenti e per purificare. È salato, ha sapore, il sapiente secondo il Vangelo. Il sale che perde il sapore è l’insipiente che ha perso la sapienza delle beatitudini del Vangelo, la sapienza stessa del Vangelo adattando il Vangelo al mondo, al modo di pensare e agire del mondo. Se noi cristiani, se questa parrocchia, se la Chiesa desidera ancora dare sapore come il sale al mondo deve conservare il sapore, ossia la sapienza di Gesù, dobbiamo comportarci come Lui si è comportato altrimenti anche noi, poco a poco diventeremo insipidi e non serviremo più a nulla.
E così dobbiamo essere luce! La Sapienza nella Bibbia è descritta come un riflesso della luce di Dio. E sarebbe un grave errore pensare di essere luce nel mondo perché esibiamo le nostre opere davanti al mondo. Gesù ci dice sì di fare in modo che la nostra luce risplenda davanti agli uomini ma ci chiede anche di fare in modo di non essere visti e ammirati dagli uomini quando facciamo qualche opera buona.
Noi cristiani non dobbiamo pensare di essere l’ombelico del mondo. Forse lo abbiamo pensato per troppo tempo ed ora vediamo che non siamo poi così attraenti.
Noi dobbiamo essere consapevoli, come lo fu il Beato Stefano, che l’unica Luce del mondo è Cristo, l’unico che salva dal peccato, dalla morte, dà senso alla vita … è Lui e noi diveniamo città posta sul monte che illumina chi ci vede, che sa attrarre a sé quando in mezzo agli uomini testimoniamo una sapienza che non è di questo mondo, non appartiene a chi fa cose grandi o è ricco e potente ma si pone a servizio di Dio che ha voluto e vuole rivelare ai piccoli e agli umili il suo mistero, che Lui è: amore, misericordia, perdono. Amen.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina