Commento per la XXXIII Domenica T.O. A

1. Abbiamo appena sentito la parabola che Gesù ha inventato per illuminarci sul rapporto che esiste fra la nostra vita e Dio nostro Creatore e Padre. La nostra vita è come un “capitale”, un “patrimonio” che ci è stato affidato in amministrazione. Vi è un gesto che sta all’origine di tutto il racconto, il padrone “consegnò loro i suoi beni”. Anche all’inizio della nostra vita sta una “consegna”. C’è un testo della Sacra Scrittura che dice: “Egli [il Signore] da principio creò l’uomo e lo consegnò in mano del suo proprio volere” (Sir 15,14). Dunque, ciascuno di noi è stato “consegnato” a se stesso: alla sua libertà. La propria persona è come un “capitale” che può essere messo a frutto. È il punto di partenza fondamentale per capire tutto ciò che il Signore ci sta insegnando. Nessuno può dirsi padrone di se stesso: noi non apparteniamo a noi stessi, poiché siamo di Dio. La vita che viviamo è dono che ci è stato fatto dal Signore. Ci è stata donata appunto perché noi l’amministrassimo.
Ora che cosa distingue l’amministratore dal padrone? Due cose: compito dell’amministratore è di fare fruttare il capitale ricevuto: non deve essere in perdita. In secondo luogo, egli dovrà rendere conto della sua amministrazione a chi di dovere. La stessa cosa accade anche nel nostro rapporto col Signore: dobbiamo “far fruttare” (amministrare bene) quel capitale che è la nostra vita; verrà un momento in cui Dio nostro Signore ci chiamerà a rendere conto. (Se la parabola delle 10 vergini sottolinea la vigilanza, qui si converge verso questo momento irrevocabile che è il “rendere conto”).

Soffermiamoci un momento su questi due insegnamenti di Gesù.

  • A) Amministrare bene la propria vita. Che cosa significa? Non vogliamo essere “servi inutili”. Non vogliamo seppellire i nostri talenti, ossia vivere da morti. Di che cosa è fatto questo “capitale” da amministrare? Delle ricchezze proprie della nostra umanità. È la ricchezza della nostra intelligenza; è la ricchezza della nostra capacità di amare; è la ricchezza della nostra capacità di lavorare. Forze messe a disposizione della nostra libertà. Ma il cristiano è stato arricchito in un modo infinitamente superiore: la vita stessa di Dio ci è stata donata.
    Il talento dell’intelligenza, che metto a frutto quando non mi restringo alla sola realtà sensibile, ma voglio capire fino in fondo il significato della vita (mi “consegno” alla Verità), lo sotterro quando … riduco tutto alla realtà sensibile.
    Il talento della capacità di amare, che metto a frutto quando mi realizzo attraverso il dono sincero di me stesso agli altri (mi “consegno” agli altri), lo sotterro quando confondo amore e piacere e mi lascio trascinare dalle emozioni e dalle passioni.
    Il tesoro sublime della nostra vita in Cristo. È l’apostolo Paolo che nella seconda lettura ci insegna come mettere a frutto la nostra vita in Cristo.
    È una pagina straordinaria questa! Essa mostra alla persona umana la sua vera grandezza, la sua dignità incomparabile, la guarisce da ogni falsa (s)valutazione e mancanza di autostima. Essa consiste nella sua libertà, nella sua capacità cioè di far giungere alla pienezza dell’essere la propria persona sviluppando la propria umanità in Cristo. Essa consiste nel fatto che poi ognuno di noi deve rendere conto di se stesso davanti al tribunale di Dio per tutto quello che avrà fatto.
  • B) Rendere conto della propria vita. Poiché la nostra vita non ci appartiene, giunge il momento in cui ciascuno di noi sarà chiamato a renderne conto. Che cosa significa? Significa che noi saremo giudicati dal Signore. È una grande verità questa che oggi si cerca di lasciare in ombra. Il momento della nostra morte non sarà una sorta di caduta nel niente eterno, bensì l’incontro di ciascuno di noi col Signore. Questo incontro ha il carattere di una “resa dei conti” fatta a chi ci ha dato la vita in amministrazione. Ci sarà chiesto “come hai vissuto? Che ne hai fatto dei talenti che ti ho donato?” e come ogni giudizio, può finire in due modi. O sentiremo dirci queste parole: “prendi parte alla gioia del tuo padrone”; oppure ci sentiremo dire queste parole terribili: “il servo inutile gettatelo fuori”.
    Ecco, vedete qui è descritta tutta la nostra vicenda, tutta la nostra vita: il tempo (altro talento) – tanto breve quanto veloce – che ci è stato donato è un tempo per guadagnare l’eternità.

2. Se allora siamo persone sagge, potremmo chiederci “quando sarà il momento in cui dovremo rendere conto della nostra vita?”. Quando sarà? A questa domanda risponde san Paolo: “riguardo ai tempi … il giorno del Signore verrà come un ladro di notte”.
Dunque. Il momento è a noi del tutto sconosciuto. Ed allora che cosa dobbiamo fare, quale attitudine assumere nei suoi confronti?
Molti, la maggior parte degli uomini, hanno assunto al riguardo l’attitudine più stolta. Essi ragionano in questo modo: “poiché non sappiamo esattamente quando verrà quel momento, noi viviamo come se non venisse mai”. Ben diverso invece è l’atteggiamento dell’uomo saggio: “poiché non sappiamo esattamente quando verrà quel momento, viviamo come se ogni momento potesse essere l’ultimo”. Questa attitudine viene chiamata dalla parola di Dio vigilanza. Ecco perché l’Apostolo ci dice: “Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri”. Se adotteremo infatti questa attitudine, quel momento non giungerà come una sorpresa: era atteso.

Se fossi chiamato oggi a rendere conto, …non imitiamo Pinocchio che sotterra le monete nel campo dei miracoli, salvo essere preso in giro dal pappagallo; facciamo, invece nostri questi due consigli di san Giuseppe Cafasso:

  1. Fare le nostre azioni a quel modo che vorremmo averle fatte quando ce ne sarà domandato conto al tribunale di Dio.
  2. Fare ogni cosa come se fosse l’ultima della nostra vita.

Don Loris Rodella,
Santa Maria Assunta e Visitazione e Santo Stefano, Cave